Ben altri sarebbero dovuti essere essere i numeri dei quali oggi avremmo dovuto discutere. Il 17 settembre era infatti da tempo atteso come il giorno nel quale, a partire dalla proclamazione dei risultati delle elezioni presidenziali a partire dalle relazioni della Commissione elettorale indipendente (IEC) e della Commissione per i reclami elettorali (ECC), avremmo dovuto valutare col dovuto rigore lo stato di avanzamento del nostro lavoro, l’avanzamento o il ritardo nel radicamento della nuova democrazia afghana.
Invece del numero dei voti ci troviamo, signor Presidente e cari colleghi, di fronte alle drammatiche cifre di questa strage, per noi la piu’ grave dopo Nassiriya: 16 morti e 29 feriti cercati a freddo come leggiamo nella rivendicazione diffusa da Al Jaseera per “dimostrare” agli Afghani e al mondo che in “Afghanistan nessuno deve sentirsi sicuro”, e, soprattutto, a non doversi sentire sicuri nelle intenzioni degli attentatori debbono essere quelli che al rafforzamento del quadro di sicurezza si sono votati in risposta ad un appello dell’Onu.
E’ per dimostrare questo che sei fratelli e figli sono stati oggi assassinati, per questo il loro sangue e’ stato mescolato con quello dei fratelli afghani.
Questo e’ il momento del cordoglio, del dolore, del lutto per la morte di quelli che, spesso a dispetto della loro eta’ matura, ci ostiniamo a chiamare ragazzi, ma che ragazzi hanno cessato di essere nel momento in cui hanno messo la loro giovinezza e la loro vita a disposizione della Repubblica.
Il nostro pensiero va innanzitutto a loro e ai feriti, a loro va il nostro pianto e il nostro cordoglio, il nostro affetto va alle famiglie cosi’ duramente provate, ai commilitoni della Folgore, alla grande famiglia dell’Esercito che in queste ore avrebbe dovuto festeggiare la sua perdurante vitalita’ col passaggio del comando dal Generale Castagnetti al Generale Valotto, alla grande famiglia delle forze armate, a lei stesso signor ministro. Io so cosa e’ per un ministro un soldato che muore, so il peso di dar conto di come abbiamo speso la loro vita.
Ogni giorno nostri concittadini muoiono a migliaia e al loro interno ragazzi italiani, a centinaia solo in incidenti stradali, morti delle quali abbiamo in ognuna una qualche parte di responsabilita’, tutti nostri fratelli e nostri figli.
Quelli che sono morti stamane a Kabul sono tuttavia morti diversi, direi speciali, sono soldati. Se la morte li ha colti su una strada di Kabul, non e’ perche’ si trovavano la’ per turismo o per caso. No! Antonio, Davide, Giandomenico, Massimiliano, Matteo, Roberto, fatemeli chiamare per nome, erano li’ perche’ li’ li avevamo mandati noi.
Non e’ oggi il giorno per approfondire il tema dei mezzi. Noi che abbiamo la responsabilita’ del fine della missione, abbiamo il dovere di interrogarci sui mezzi che abbiamo messo a loro disposizione per raggiungerlo. I soldati ci mettono la vita, la disponibilita’ a perderla. Questi nostri concittadini la vita l’hanno persa. Noi l’abbiamo persa con loro.
Assieme alla riflessione sui mezzi dovra’ venire anche il giorno nel quale dovremo tornare a ragionare sui fini. Noi sappiamo da sempre che pur guidata da fini di pace e di pacificazione la missione si svolge infatti in un ambiente nel quale altri perseguono finalita’ di guerra, una finalita’ che non e’ nella nostra disponibilita’.
E verra’ il giorno nel quale assieme ai nostri alleati oltre che del fine ci auguriamo di poter discutere della fine, di come mettere fine a quello che abbiamo iniziato.
Se c’e’ un giorno sbagliato per discutere della fine, quel giorno e’ oggi.
Oggi e’ un giorno di lutto, un giorno di unita’ nel dolore.
Intervento di Arturo Parisi in Aula