«Per valutare la situazione afghana bisogna sempre guardare il punto di partenza. Senza dimenticare nulla degli enormi problemi ancora esistenti, potrebbe capitare di chiederci come mai è stato fatto così tanto in così poco tempo. Quello che non possiamo dimenticare è comunque che siamo inseriti in un’alleanza, e quindi non è disponibile al Paese quella strategia di uscita solitaria e unilaterale che qualcuno ogni tanto ripropone».
Arturo Parisi, ministro della Difesa è appena tornato da una visita lampo ad Herat per passare il Natale con i nostri soldati in missione in Afghanistan. E fa un bilancio dei primi sette mesi di governo e dei suoi momenti più critici, ammettendo errori di comunicazione e carenze nella capacità di indicare il profilo riformatore di un esecutivo che deve tornare al «tempo delle scelte», per usare il titolo felice di un libro di Prodi alla vigilia della nascita dell’Ulivo.
Certo il punto di partenza è la politica estera e la missione più critica, quella in Afghanistan, sulla quale Parisi pianta alcuni paletti: «Quello che è certo è che il venir meno della missione Isaf peggiorerebbe la situazione di quel popolo verso cui siamo solidali. Più che mettere in dubbio la continuità dell’impegno, dobbiamo allargarlo e qualificarlo, associando a quello militare uno sforzo per la ricostruzione civile, economica e sociale del paese. Quanto alla disponibilità a intervenire a sostegno di alleati che si trovassero in difficoltà è nelle cose: ma in situazioni di emergenza e a precise condizioni».
Non teme che il nodo dell’Afghanistan possa costituire una minaccia alla tenuta della maggioranza?
«Non voglio farla facile. Ma sono sicuro che così come siamo riusciti in questi mesi, riusciremo a svolgere un filo unitario anche in futuro».
Se sulla politica estera avete segnato in questi mesi qualche punto a vostro favore, sul fronte interno le difficoltà del governo sono evidenti. Che bilancio fa di questi primi sette mesi?
«Forse la rappresentazione della nostra ispirazione in alcuni passaggi non è stata adeguata. Sono tuttavia sicuro che il superamento della finanziaria e la comprensione dei motivi che hanno guidato alcune scelte, penso ad esempio all’indulto, ci consentiranno di recuperare quell’orizzonte di lungo periodo che appare al momento sfuocato».
C’è stato un provvedimento che meglio ha caratterizzato il profilo del governo?
«Sicuramente quello sulle liberalizzazioni. Purtroppo la finanziaria ha indirizzato l’attenzione su questo o quel particolare e non sulla liberazione di energie presenti nel paese che pure la manovra di bilancio conteneva. In alcuni passaggi non siamo riusciti a comunicare l’ispirazione complessiva, a causa della dialettica politica, esasperata dai rapporti di forza: in queste condizioni qualsiasi parlamentare può richiamare l’attenzione su questo o quell’aspetto particolare, cedendo alla tentazione nella quale può indurlo la debolezza dei numeri».
Quali sono stati i passaggi più critici per il governo?
«Certo se si pensa che l’indulto ha preso le mosse da un appello di Papa Woytila che ha attraversato gli schieramenti e si guarda alle incomprensioni incontrate, qualche errore di comunicazione dobbiamo riconoscerlo».
E la norma sulla prescrizione dei reati contabili?
«A stare alle ricostruzioni non posso non iscriverla tra gli incidenti procedurali. Le correzioni annunciate prontamente faranno comunque grazia di ogni lettura diversa».
Le è piaciuto Prodi quando ha parlato di paese impazzito?
«Quello di cui in politica abbiamo più bisogno è di verità. E il vero Prodi è anche quello che attraverso i sentimenti e gli umori, esprime il suo stato d’animo. Anche se queste modalità espressive possono essere apparse come un limite o una gaffes, esse sono il segno che Prodi chiama pane il pane e vino il vino. Dalla parte dei cittadini è preferibile uno dal quale si può dissentire che uno col quale non si può consentire per il permanente sospetto di falsità…
Ma ora dovrete fare uno sforzo per rendere più evidente la missione del governo…
«Se c’è qualcosa da rafforzare è quell’ispirazione di largo respiro che connota l’azione di governo. Se dovessi dare un consiglio a Prodi gli direi di tornare al «tempo delle scelte», ricominciare, più che dall’Europa, dal Mondo, riscoprire direi la stessa Europa partendo dal Mondo. Dal Mondo nelle sue potenzialità e nei suoi rischi, sapendo che pochi come lui sanno promuovere il cambiamento e interpretare la speranza. Se riusciremo in questo, e ci riusciremo, non ho dubbi che il calo di popolarità del governo registrerà presto nei sondaggi una inversione di tendenza».
Non si rende necessario un riequilibrio degli assetti del governo, accusato di essere troppo sbilanciato a sinistra?
«Non credo alle scorciatoie. Il nostro compito è portare su posizioni e su una cultura di governo tutta la coalizione. Ed è per questo che ci serve un progetto di largo respiro che vada oltre la legislatura, e assieme a questo, un soggetto politico, il partito democratico, che sia aperto e si faccia carico della crescita di tutta la coalizione. Un Partito Democratico unito nel segno dell’Ulivo per unire l’Unione, come andiamo dicendo da anni. Non una parte che nella coalizione si pensi come controparte di altre parti. Un progetto che esclude solo chi si esclude. Un progetto che sfida i confini dei partiti e la logica proporzionale della legge elettorale che li costringe a irrigidire alcuni tratti in modo caricaturale. É anche per questo che sostengo il referendum abrogativo dell’infame legge elettorale vigente: per costringerci tutti a ripensare insieme una riforma in senso bipolarista e maggioritario».
Ma i partiti più piccoli sono già sul piede di guerra e non accetteranno una riforma che favorisca la nascita di partiti unici in entrambi gli schieramenti.
«Son sicuro che anche loro riusciranno a trovare una sintesi tra le ragioni della identità e quelle della responsabilità verso il paese. Siamo poi sicuri che tutte le forze politiche siano espressione di identità profonde e non invece dei meccanismi elettorali?».
Il percorso del partito democratico procede tra stop and go continui. Lei ha lanciato l’allarme sul rischio che questi ritardi possono produrre per la vita stessa del governo. Il vertice della Margherita ha ora trovato un accordo per andare al congresso con una mozione unitaria. Le sembra un passo in avanti concreto?
«La Margherita ha ritrovato come prospettiva comune il disegno originario, il proprio superamento in un progetto più grande, senza condizionarlo alle scelte di altri. E affida a questo congresso, che sarà inevitabilmente l’ultimo, la decisione di concludere la propria autonoma attività di partito a partire dalla costituzione del partito democratico. Non ci sarà un altro congresso e un partito non può vivere troppo a lungo con il cartello «a scadenza». Questa scelta sarà per i Ds una sollecitazione a prendere decisioni conclusive già in primavera e lo dico senza alcuna tentazione di sfida. Perchè il 2009, anno delle europee, non ci può vedere più rappresentati da una semplice lista elettorale ma da un partito ben riconoscibile».
Ma Fassino ha già detto che il prossimo non sarà l’ultimo congresso dei Ds…
«La nostra scelta stà lì a ricordare che il tempo non è una categoria dello spirito, e se per la Margherita questo è ora il congresso decidente e decisivo sarà difficile non misurarsi con questa novità».
E le primarie per la leadership del nuovo partito quando si dovranno tenere?
«Dopo le europee del 2009 e prima delle prossime politiche. Primarie che non escludano nessuno tra concorrenti che si propongono ai cittadini in nome dell’idea per il futuro del paese della quale sentono il dovere di farsi personalmente portatori, non in nome di precedenti cariche di partito, tra concorrenti che mettono in gioco la propria leadership personale e la capacità di porsi come riferimento comune per tutti».
Sembrano caratteristiche più vicine a Veltroni che non a Rutelli e Fassino.
«Per Veltroni è certo più semplice perchè parte nell’immediato da un ruolo che lo alleggerisce da una connotazione di parte, ma quello che conta è la proposta di governo di cui ci si fa portatori. Da questo punto di vista la necessità di proporsi come un riferimento che va oltre il partito di provenienza potrebbe spingere, anzi costringere un dirigente di partito ad una proposta ancora più trasgressiva di chi si presenta ai blocchi di partenza alleggerito dalla rappresentanza di parte. Ma perchè poi continuare all’infinito a ragionare all’interno degli organigrammi e non scommettere invece nella fantasia della Storia?».