Arturo Parisi non ha perso l’accento sardo, ma è diventato in questi anni il punto di riferimento di un ambiente culturale bolognese da cui sono nate idee è – dall’Ulivo alla scuola del partito democratico – e sorti personaggi che hanno inciso profondamente sulla vita politica nazionale. Nel suo ufficio romano, tra Porta Pia e il Quirinale, il ministro della Difesa parla della sua città di adozione.
Professor Parisi, quando è arrivato a Bologna?
“Nel settembre del 1968, nei giorni nei quali cominciava l’attuazione del piano Cervellati, allora assessore all’Urbanistica. La scelta qualificante era allora la restituzione del centro storico alla vita della comunità . Oggi le aree pedonali esistono ovunque. Ma la primogenitura, almeno in Italia, è bolognese”.
Lei veniva da Sassari?
“A Sassari vivevo dalla nascita e lì mi sono formato, prima di frequentare la scuola militare della Nunziatella. Ma a Bologna sono arrivato da Milano, dopo la laurea in giurisprudenza e gli studi di sociologia alla scuola diretta da Alessandro Pizzorno. Non avevo ancora 28 anni. L’istituto Cattaneo stava conducendo ricerche sulla trasformazione della Chiesa, e mi chiamò. Entrai così in contatto con l’ambiente del Mulino e con quel gruppo irripetibile di studiosi: Pedrazzi, Matteucci, Evangelisti, Andreatta, Raimondi. E poi i nuovi giovani che mi avevano preceduto di poco: Vittorio Capecchi, Marzio Barbagli”.
Che impressione le fecero Nicola Matteucci e Nino Andreatta?
“Matteucci era quel che si dice un aristocratico, e non solo per i numerosi cognomi. Un liberale appassionato, rimasto tale sino all’ultimo. Con Andreatta all’inizio il rapporto fu impegnativo. Non era un interlocutore facile. Fu questo a rendere più solida l’amicizia una volta superate le difficoltà . La comune timidezza che fu all’inizio un ostacolo, una volta superata, si trasforma in una profonda amicizia: il rigore, unito alla curiosità intellettuale e alla simpatia fu all’origine di infinite chiacchierate notturne. Sapeva interrogare, era interessato a capire. Uno dei fratelli maggiori che accolsero la nostra generazione, caricati di un ruolo di maestri, se pure talora da noi allora non riconosciuti o addirittura rifiutati”.
L’incontro con Romano Prodi?
“Non è vero quanto dicono, che sia uguale ad allora. Fisicamente Romano è migliorato con l’età. Di me dicono invece il contrario: (Parisi sorride).
Ma già allora Prodi manifestava l’attitudine che oggi lo caratterizza: era una persona
interessata alle cose, più che alle ideologie. E aveva un atteggiamento naturalmente riformista. Noi eravamo invece tentati dalle idee generali, rivendicavamo il diritto all’astrazione. Lui aveva già la stessa concretezza di adesso”.
Dov’era la sua prima casa bolognese, professor Parisi?
“In periferia. Una casa grigia, in un paesaggio Anni Cinquanta uguale a quello di molte altre periferie italiane. Compresi presto che vivere a Bologna significava, soprattutto per un universitario, vivere nel suo centro, per partecipare a una realtà che invece altrove in Italia si era persa. Bologna era e in parte è ancora un campus urbano, dove un professore può incontrare gli studenti e i colleghi per strada. Presi casa in via D’Azeglio: i colleghi del Mulino abitavano tutti nel raggio di un chilometro e mezzo. Le mie giornate si svolgevano interamente a piedi. I portici del centro erano la mia autostrada. Erano tempi nei quali era ancora possibile leggere i giornali affissi avanti alle sedi dei partiti. E io ne approfittavo fermandomi a lungo:per questo mi prendevano anche un po’ in giro. Gustavo così quel sapore di provincia, che nella Sassari della mia adolescenza si era invece perduto. La naturalezza di relazioni, la possibilità di incontrarsi per caso”.
Un paese, sia pure molto grande?
“Un paese nel quale ti sentivi però in una posizione centrale, a un crocevia del mondo. In un attimo si poteva arrivare non solo a Firenze, Venezia, Modena, Ferrara, ma in una moltitudine di centri, Mirandola, Carpi, Cesena, Mantova, Rimini tutti ricchi di vita e di storia. E per me, che venivo da un’isola isolata come la Sardegna, veder passare dalla stazione di Bologna il treno con vagoni per Mosca” era ogni volta una emozione.
Con i colleghi avevate in comune anche la messa di monsignor Gherardi, vero?
“Io no. La sfera religiosa era per me una esperienza distinta; difendevo in questo un tratto di laicità normale. Andavo nelle mie parrocchie: prima Santa Maria Goretti, poi San Procolo”.
L’isolamento vale anche per la sfera conviviale?
“Si, anche prima di sposarmi non ho mai avuta una trattoria prediletta. Son stato sempre un mangiatore distratto. Da questo punto di vista, Bologna mi ha lasciato intatto. Prodi invece ha sempre mangiato con gusto”.
Suo figlio è nato a Bologna, nel ’99 lei diventa anche parlamentare della città . Senza mai perdere l’accento di Sassari, però.
“Questo è però anche un segno dell’ospitalità dei bolognesi, della loro accoglienza rispettosa, che consente ai nuovi bolognesi di mantenere i tratti precedenti, senza premere per l’omologazione o stigmatizzare le diversità. E’ un tratto importante che Bologna ha mantenuto nel tempo.
La trova molto diversa da allora?
“Il cambiamento di Bologna è l’esito del mondo che cambia. La città che è riuscita a rimanere al riparo dalla grande migrazione dal Sud che ha investito invece Torino, Genova, e Milano, è ora attraversata da crescenti flussi di umanità, figli anche del suo successo, della sua capacità di attrazione, oltre che della spinta delle aree di provenienza. L’equilibrio si è infranto da tempo. Cercando una data, penserei all’11 marzo del 77”.
Cosa cambia con la morte di Francesco Lorusso?
“Finì allora il tempo in cui Bologna apparve l’utopia realizzata. La città dei trasporti gratuiti. Il luogo dove il movimento comunista riusciva a fare proprie le idee degli avversari, come accadde con Dossetti che lo aveva affrontato alle amministrative del 1956. Sì il colpo di Winchester che uccide Lorusso apre una nuova stagione, in cui la sinistra non intercetta più i movimenti. Comincia il riflusso nel privato. E la città perde la sintonia con l’università , con gli studenti fuorisede”.
Qual è il suo giudizio sul sindaco Cofferati?
“Il giudizio si da alla fine del mandato. Diciamo che per il momento le aspettative generate nella sinistra dalla domanda di rivincita e nella città dalla deludente esperienza di Guazzaloca, registrano qualche ritardo”.
I fondatori di Ulibo, la scuola del partito democratico sono suoi allievi. Si riconosce nell’iniziativa?
“Come potrei non riconoscermi? E’ una storia che continua. Lo stesso ambiente culturale che ha inventato l’Ulivo, e ha creato nel tempo nuovi luoghi, centri studi, gruppi.La prova che Bologna resta un laboratorio della politica come poche altre città .