Roma – Ogni scelta concordata. Ogni passo compiuto uno di
fianco all’altro. Vittorie ottenute insieme, sconfitte sofferte congiuntamente.
Da quando, nel 1993, Romano Prodi si è tuffato in politica, Arturo Parisi gli è
stato vicino. A braccetto sono entrati a Palazzo Chigi nel ’94, di comune
accordo hanno dato il via all’avventura dei Democratici nel ’99. A tavolino
hanno studiato le primarie del 2005 e di nuovo insieme sono saliti al Quirinale
per giurare sulla nascita del nuovo governo. Praticamente
inseparabili.
Eppure quel sodalizio non sembra più lo stesso. Ieri,
intervistato su La7 per la trasmissione “Retroscena”, l’ultima stoccatina del
ministro della Difesa. «Mi auguro» che alle prossime elezioni Silvio Berlusconi
non sia candidato premier. Ma neanche Romano Prodi: «Il Paese ha bisogno di
rinnovamento. Se dovesse riproporsi per la terza volta la stessa situazione,
vuol dire che non avremmo fatto troppa strada». Certo, anche il Professore
ammette che questa è «l’ultima volta». Nel 2011, ha detto scherzando ad un amico
durante il recente voto di fiducia al Senato sulla politica estera, «rischio di
camminare con le stampelle».
Sta di fatto, che la sintonia di un tempo
tra Romano e Arturo è andata affievolendosi. Certo, per lo più sono sfumature. I
ruoli sono diversi. Però, i “parisiani” non sono più “prodiani”. Il referendum
elettorale resta obiettivo imprenscindibile per i fedelissimi del ministro. «È
come una scadenza – spiega Parisi – che ognuno si mette per onorare un impegno
preso». Ossia, la certificazione del sistema bipolare. La nascita di due
formazioni, uno delle quali dovrebbe essere il Partito Democratico. Traguardo
che Romano e Arturo hanno scolpito insieme in questi anni. Il premier, però, ora
ne scorge anche i rischi per il suo esecutivo. «Può trasformarsi in una bomba ad
orologeria».
Basti pensare alla tempestosa riunione dell’ufficio di
presidenza della Margherita di mercoledì scorso. «Il referendum – ha avvertito
Francesco Rutelli – mette a rischio il governo». «Nella storia d’Italia – ha
ricordato Antonello Soro – dopo una consultazione di questo tipo si è subito
andati a votare». Discorsi respinti dai “colonnelli” parisiani: «Ma non
metterete mica Parisi nella banda di quelli che vogliono far cadere Prodi?», ha
replicato a muso duro Willer Bordon fiancheggiato da Natale D’Amico: «Ma siete
interessati al consenso oppure no?». Linea che lo stesso ministro ieri ha
confermato senza peli sulla lingua: «A parte l’inopportunità e l’improprietà di
forma di questi appelli, posso solo dire che la via più sicura, la via maestra
per evitare il referendum è l’approvazione di una legge che si faccia carico
della domanda di cambiamento dell?attuale legge elettorale. Di quella domanda di
cambiamento che durante le ultime elezioni abbiamo noi stessi promosso e
raccolto. E se daremo un seguito coerente, penso che i riformatori e io per
primo ce ne rallegreremo».
Il messaggio sembra indirizzato anche a
Palazzo Chigi che da questa settimana è impegnato nella ricerca di un
compromesso che superi il “porcellum”. Senza escludere il modello tedesco, vero
fumo negli occhi dei referendari. Però, tuona Parisi, senza il quesito «di tutto
avremmo parlato all’infuori della legge elettorale». Soprattutto “Artullo” (così
lo chiama Cossiga) ogni volta puntualizza che questo «guardando più in
prospettiva» aiuta meglio l’«amico» nella quotidianità dell’azione di
governo.
Del resto, sistema di voto e partito democratico sono due facce
della stessa medaglia. Come ama ripetere il ministro della Difesa, «il Pd non è
un partito per Prodi, semmai un partito per il dopo Prodi». Il rapporto con
Rifondazione comunista, la Finanziaria e il vertice di Caserta hanno fatto il
resto. L’uomo di Sassari a cavallo tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007
invocava una «maggiore capacità di guida» della coalizione. «Devi tornare al
tempo delle scelte», ammoniva a dicembre. In quegli stessi giorni, il braccio di
ferro sui fondi per la Difesa è stato una sorta di leit motiv che connotava gli
incontri tra i due.
Ma la distanza è emersa quasi platealmente sul caso
della base americana di Vicenza. Parisi voleva prendere tempo. Era convinto che
fosse possibile persuadere gli Usa a scegliere un’altra località. Poi però, ha
osservato in pubblico, «il presidente Prodi ha ritenuto che il tempo fosse
scaduto e ha deciso per tutti». Negli stessi giorni, invece, il premier non
aveva gradito che il suo ministro dalla Spagna avesse fissato nel 2011 la data
di exit strategy dall’Afghanistan.
Adesso tutti minimizzano. Ieri sono stati
ancora per una volta fianco a fianco alla cena di gala a Bologna in onore di
Giorgio Napolitano. Entrambi spiegano che «gli obiettivi sono condivisi». Uno fa
il “buono” e l’altro il “cattivo”. Al massimo «può capitare – ragiona Parisi con
i suoi fedelissimi – che sulle modalità con cui conseguire gli obiettivi, ci sia
una differenza». Appunto, capita.