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26 Gennaio 2007

Intervento tenuto da Arturo Parisi in occasione della Giornata della Memoria a Roma

Pubblichiamo l’intervento tenuto da Arturo Parisi in occasione della Giornata della Memoria a Roma alla presenza del Rabbino Capo di Roma Di Segni, del Rabbino Toaff, dell’ambasciatore d’Israele,Monsignor Fisichella e di molti parlamentari.

Noi ricordiamo

“Racconterai ai tuoi figli”, dice in più luoghi la Bibbia. C’è un legame profondo, inscindibile, nella testimonianza, tra il testimone e il testimoniato: tra le persone protagoniste, i fatti accaduti, la loro memoria e il loro significato. Per questo Dio ordina a Israele di avere figli: per essere raccontato. Se non si raccontasse, se cessasse il racconto o non ci fossero più persone alle quali raccontare, la memoria della propria storia si perderebbe e con essa il significato della realtà.
Per questo noi ricordiamo. Raccontare quel che è accaduto, ricordare che accadde davvero è un atto esistenziale – cioè morale, religioso, civile – doveroso. Al punto che non farlo è colpa. “Se è testimone perché ha visto e sentito qualcosa e non lo riferisce, colui porti il peso del suo peccato” afferma il libro del Levitico (cfr. Lv 5,1). Il dovere di testimoniare impone l’obbligo di ascoltare.
Il genocidio degli ebrei in Europa, l’evento della Shoah, oltre che una ferita indelebile, rappresenta una crisi di civiltà sulla quale non cessiamo di interrogarci e intorno alla quale, col passare del tempo, cresce il problema della trasmissione della memoria.
A mano a mano che i diretti testimoni scompaiono noi abbiamo un dovere e un compito in più: nessun evento per quanto clamoroso può autoimporsi definitivamente per il solo fatto di essere accaduto; se non se ne cura la memoria, ascoltando anzitutto i testimoni, pian piano, esso rientra nella normalità. Allora accanto agli abietti, accanto a coloro che negano l’esistenza stessa di eventi come Auschwitz, accanto a coloro che negano che la Shoah sia stata un evento costitutivo del Novecento, cresceranno gli indifferenti, gli immemori, e coloro che confonderanno le vittime e i carnefici.
Testimoniare, ascoltare non significa tuttavia ancora comprendere e questo vale soprattutto per lo sterminio degli Ebrei in Europa non si sottrae a questa procedura.
Per lo scrittore Elie Wiesel: “Ogni fatto legato a quel periodo sfida la comprensione umana”. Secondo lo storico Saul Friedlander, noi “conosciamo nei dettagli ciò che è accaduto, conosciamo la sequenza degli avvenimenti e la loro probabile concatenazione, ma ci sfugge la dinamica profonda del fenomeno”. La Shoah appartiene alla storia, è possibile descriverne lo svolgimento, individuarne le tappe, definirne le cause prossime e quelle remote, ma rimane una zona d’ombra, un “buco nero”, come lo definiva Primo Levi. Per penetrare questa zona d’ombra, ecco perché come ci invita il francese Enzo Traverso, occorre integrare la riflessione storica con la dimensione della memoria dei protagonisti. Finché siamo in tempo. Conoscenza e ricordo hanno bisogno di essere ricomposti.
Il primo dovere che abbiamo oggi è dunque quello di ascoltare i testimoni, i superstiti. E’ un dovere verso la verità storica, verso le vittime e verso la condizione dei sopravvissuti.
E io voglio farlo dando brevemente la parola a una donna, ebrea, italiana (nata a Pisa e vissuta a Genova, entrata nel 1943 nella resistenza e subito catturata), sopravvissuta a Birkenau, morta qualche mese fa: Liana Millu. “ Noi superstiti siamo sempre di meno, sempre più vecchi, più vicini alla fine del nostro gomitolo e abbiamo il dovere di dire, di informare. Non tanto di descrivere: questo è un altro discorso perché il Lager non potrà mai essere recepito da chi non l’ha vissuto. Ma farne testimonianza dobbiamo. Viviamo ancora e già da tempo c’è chi sostiene che è tutta propaganda, tutta falsità, i Lager non sono esistiti che come misura igienica: tutte quelle cifre, tutte quelle storie delle camere a gas sono invenzioni”.
Accanto all’invito alla vigilanza, contro il male più subdolo, l’indifferenza, va posto il registro del ricordo del sopravvissuto. Il dramma più autentico del testimone di una catastrofe coincide con la condizione oggettiva della sua stessa sopravvivenza e col significato che essa può assumere:
“Sono il numero A 5384 di Auschwitz Birkenau. Dico sono e non sono stata: lo sono ancora perché il tempo del Lager si prolunga in una parabola che i programmatori nazisti non avrebbero mai potuto immaginare. Come tempo massimo della vita dei loro ‘Arbeit Stucker’ (pezzi da lavoro) avevano stabilito nove mesi: Il periodo di cui ha bisogno la natura per creare un nuovo individuo era stato programmato dagli esperti dei Lager anche come quello necessario (al massimo) per distruggerlo. Quando dico ‘sono’ e non ‘sono stata’ – e come me potrebbero dirlo i compagni che sono stati a Dachau, a Mauthausen, in qualsiasi altro campo di concentramento – mi riferisco a questo fatto: il Lager vive ancora dentro di noi. In certo senso, siamo ancora gente di Lager”.
Il dovere di testimoniare suscita l’obbligo di ascoltare. Il testimone non creduto o non ascoltato patisce il dolore più atroce: questo rifiuto elimina l’unica condizione che può trasformare il dato brutale della pura sopravvivenza nel quale esso si trova in un gesto di pietà e di giustizia verso le vittime e verso di noi.
Lo ha spesso rammentato nei suoi scritti Primo Levi: raccontare l’orrore visto e subìto genera nuovamente, in chi lo fa, un “puro dolore”, ma non poterlo fare, non essere creduti fa di quella pena un “dolore desolato”, privato del suo significato ultimo.
Se non ascoltiamo, noi condanniamo i sopravvissuti al non-essere del loro dolore.
Se non ascoltiamo noi prolunghiamo la violenza sulle vittime, quell’opera che cercò di rendere gli uomini cose.
Credo che stia qui la necessità del racconto dei testimoni. Solo le testimonianze possono sburocratizzare il male, riumanizzare uomini, donne, vecchi, bambini disumanizzati, resi numeri senza nomi e senza volti. Poiché essi sono i soli che possono pronunciare i nomi, raccontare le vite, i mestieri gli affetti e le identità di coloro che giunsero nell’orrore dei campi di concentramento. Nulla è ad un tempo più debole e più forte di un nome proprio: è il segno unico, primo e ultimo della dignità della persona umana.
Elie Wiesel racconta che nel Lager aveva dimenticato tutto, anche il suo nome; lui era A 7713. Qualcuno del suo paese e suo padre finché fu vivo, ogni tanto vedendolo lo chiamava per nome ricordandogli il suo nome. E Wiesel commenta: “Ecco a me questo bastava, era sufficiente per credere che l’uomo fosse capace del Bene”.
Ascoltare dunque. Innanzitutto ascoltare. Ma che cosa? Ascoltare l’accaduto e, con l’accaduto, la sua accadibilità. Se è accaduto una volta può accadere ancora. In altri contesti e condizioni, ad altri e persino al testimone stesso. Può accadere ancora. In questo sta la difficoltà di ascoltare.
Noi ascoltiamo come l’umanità dell’uomo rimanga sempre una possibilità, mai un dato di fatto acquisito una volta per tutte.
La parola del testimone dice della nostra fallibilità, della fallibilità delle nostre responsabilità, del possibile fallimento delle nostre costruzioni valoriali, delle nostre facili illusioni se non ci misuriamo col male storicamente possibile, che è il male storicamente accaduto.
In questo senso dobbiamo fare i conti con le nostre responsabilità storiche. Qui parlo per noi, per l’Italia e per gli italiani. Anche noi non siamo stati immuni da quel male storico ai confini del male assoluto. Anche la nostra patria, la nostra nazione, in quella sequenza agghiacciante di nazionalismo – fascismo – culto della morte come educatrice delle elités – leggi razziali – campi di concentramento – deportazioni – sterminio ha tradito i suoi figli.
Poiché gli ebrei italiani erano anzitutto italiani. Italiani tra Italiani. Avevano concorso alla costruzione del nostro stato unitario lungo l’Ottocento e la stagione risorgimentale, avevano concorso all’acquisizione delle nostre conquiste liberali. Vi è un debito della nazione verso i suoi figli traditi. Noi non abbiamo fatto ancora fino in fondo i conti con l’istituzione delle leggi razziali e il conseguente innesco della catena di deportazione e di distruzione degli italiani di religione ebraica.
C’è ancora un mea culpa da fare, non solo morale, bensì culturale, civile, politico, legato alle responsabilità pubbliche nei diversi settori della nostra società, dall’Università al pubblico impiego, dalle professioni alla scuola. E questo atto va fatto come italiani e come nazione italiana. Da italiani a italiani.
Da ultimo non posso non legare assieme quella consapevolezza del nostro tradimento alla consapevolezza delle nostre attuali responsabilità. Dobbiamo evitare altri tradimenti, portatori di nuovi possibili lutti.
Sì, penso al nostro impegno in favore della pace in diverse aree del mondo, contro le vecchie e le nuove forme di odio e di offesa alla dignità umana. Penso allo spirito della nostra Carta costituzionale, scritta all’indomani di quell’immane tragedia compiuta nel cuore dell’Europa. Essa ci ricorda, ci chiede, ci obbliga ad assumere il valore della pace come fine e come modo di rapportarci agli altri paesi, alle altre nazioni, agli altri popoli. Quel valore costituisce per noi una responsabilità attiva, non un atto egoistico rivolto verso noi stessi, finalizzato al nostro vivere quieto, al nostro starcene “in pace”.
La pace è oggi un valore a rischio che va affermato attivamente, responsabilmente.
Il nostro rischio di oggi, la nostra colpa attuale potrebbe essere quella di un mancato esercizio di responsabilità. La nostra colpa potrebbe oggi consistere in un’omissione di consapevolezza e di responsabilità.
Mentre pronunciamo i nomi e ricordiamo i volti delle vittime dello sterminio nazista, dobbiamo impedire che altri nomi e altri volti siano negati e sfigurati nella loro dignità di persone umane. Anche per questo noi ricordiamo.