Come hanno scritto qualche giorno fa Tito Boeri e Luigi Guisosulla Nuova Sardegna, (5.2, pp.1 E 17) le crisi bancarie e gli scandali finanziari hanno un pregio: “portano alla luce ciò che non va nell’architettura del sistema di credito e costringono ad aprire gli occhi” anche a chi non voleva aprirli, o, “pur avendoli aperti, non sapeva vedere”. Da questo punto di vista il caso del Monte dei Paschi di Siena, che alimenta da giorni l’allarme e le preoccupazioni dell’opinione pubblica, rappresenta per ognuno di noi una occasione preziosa che ci interpella da vicino come cittadini. Esso ha infatti riportato alla nostra attenzione interrogativi sull’organizzazione del sistema finanziario italiano e sul ruolo, al suo interno, delle fondazioni bancarie.
Un dibattito che anche da noi in Sardegna si è sviluppato da tempo grazie al contributo, appassionato e allo stesso tempo competente, di economisti della autorevolezza di Luigi Guiso e di Francesco Pigliaru.
Un dibattito che affonda le sue radici indietro negli anni. Pensiamo tra tutte alla voce profetica di Salvatore Biasco, parlamentare e anche lui autorevole docente di economia monetaria – che già 15 anni fa – era il 18 marzo del 1998 – intervenendo alla Camera come Presidente della Bicamerale dei Trenta nella discussione sulle Fondazioni Bancarie lasciò a verbale la sua preoccupazione che esse potessero trasformarsi in “potentati finanziari, creati dal nulla, luoghi di selezione del notabilato e di autoreferenzialità” destinate “a frapporsi in modo non neutro alla politica sociale degli enti locali, senza rispondere a nessuno”. A poco valsero allora le preveggenti considerazioni di Biasco.
Questi interrogativi si pongono in una cornice che abbraccia l’intero Paese, e, più limitatamente, all’interno dei mercati locali del credito. In questo quadro essi ci interpellano tuttavia più specificamente in riferimento alla situazione sarda. Essa presenta infatti alcune specificità che la caratterizzano e, per alcuni versi, la assimilano al caso del Monte dei Paschi di Siena. La più importante rassomiglianza tra il caso senese e quello sardo è la concentrazione della dotazione della Fondazione Banco di Sardegna nel capitale del Banco: la Fondazione detiene infatti il 49% del capitale della banca, quota stabile da quando si verificò la cessione del Banco alla BPER, che equivale a oltre il 30% del valore della dotazione della Fondazione. La differenza rispetto al Monte dei Paschi, è che la Fondazione non esercita il controllo del Banco anche se partecipa al governo della Società esprimendo parte del Consiglio di amministrazione e designando il Presidente del Banco. A proposito di queste prerogative della Fondazioneleggiamo da qualche tempo sui giornali che in vista degli avvicendamenti determinati dalle nomine dei nuovi parlamentari si è da qualche parte ipotizzata la nomina di parlamentari uscenti negli organi dirigenti della Fondazione e in quelli dello stesso Banco di Sardegna.
E’ pensando a questi avvicendamenti e al dibattito che si aperto sul fatto che le Fondazioni (in contrasto con i fini statutari e con l’intento con cui furono inizialmente create) finiscono per rinnovare e rinsaldare quel rapporto tra politica e finanza cheall’inizio degli anni 90 si voleva scardinare, che viene spontaneo rivolgere alla opinione pubblica e agli organi della Fondazione alcune domande.
Innanzitutto che cosa giustifica il fatto di detenere una quota così rilevante del patrimonio della Fondazione investita nel capitale del Banco di Sardegna? L’episodio MPS insegna una cosa: che se la fondazione che sta dietro una banca impegna una quota molto rilevante del proprio patrimonio nella Banca e la banca affonda, con essa affonda anche la Fondazione. Non sarebbe il caso di ripensare l’intera strategia e, come ha fatto qualche rara Fondazione (ad esempio la Fondazione Roma), uscire dal Banco di Sardegna e diversificare al massimo l’investimento?
Perché finora, nonostante la legge invitasse le fondazioni a proseguire nella liquidazione delle partecipazioni nelle banche conferitarie e a diversificare adeguatamente il proprio patrimonio, la Fondazione Banco di Sardegna ha continuato a mantenere invariata la propria quota nel Banco?
Quali sono poi gli obiettivi che la Fondazione si è finora riproposta nell’esprimere parte del Consiglio del Banco? Quali criteri hanno guidato la scelta dei consiglieri? Che contributohanno dato alla gestione del Banco?
Apprendiamo infine dal sito della Fondazione che nell’ottobre scorso è stato siglato un nuovo patto parasociale con la BPER. L’accordo prevede un obbligo della Fondazione a non scendere sotto la quota del 20% della partecipazione al capitale del Banco. Nel caso decida di vendere azioni ordinarie in eccesso di tale quota la Fondazione si impegna a trasferirle alla BPER o, se trasferite a terzi, a garantire a BPER un diritto di prelazione dell’intero pacchetto, e nel caso che il potenziale acquirente sia una banca o una società finanziaria, ad ottenere il preventivo gradimento di BPER. Quando avviene uno scambio si presume che ci guadagnino entrambi i contraenti. Mentre però sono evidenti i vantaggi che BPER può trarre da questo accordo (si assicura un socio di minoranza, ha la prelazione sull’offerta, può limitare, attraverso la clausola di gradimento l’insieme dei possibili acquirenti), non sono affatto chiari i benefici per laFondazione. Ve ne è qualcuno? Li si può esplicitare?
Tutte domande che evocano di certo temi e problemi che meritano di essere discussi.