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22 Maggio 2006

Contributo per il Partito Democratico

Autore: Marco Meyer

Partito Democratico: anno zero. Con la costituzione dei gruppi unitari dell’Ulivo alla Camera ed al Senato il Partito Democratico è entrato nel vivo, ma il processo appena  avviato appare ancora molto fragile. In questo momento  è  ancora forte il rischio che prevalga una logica di potere (oligarchica e “spartitoria”) tra DS e Margherita con il conseguente emergere di veti incrociati ed il continuo  risorgere di patriottismi di partito. Il punto centrale è che il Partito Democratico per avere successo deve aprire un nuovo orizzonte culturale. Ma su questo fronte l’elaborazione è ancora molto scarna e carente. Il pericolo maggiore è che il dibattito resti confinato nelle formule vaghe e si fermi alle enunciazioni di principio. Cosa c’è dietro le etichette?  Com’è possibile passare dall’idea al progetto politico? In questo saggio  Marco Mayer entra nel vivo dell’analisi e della ricerca politica. Il testo passa in rassegna ed analizza criticamente  i principali temi politico-culturali che la costruzione del Partito democratico dovrà affrontare: l’immagine che emerge è quella di un cantiere difficile e impegnativo, un‘agenda densa e stringente non solo per i partiti, ma anche per la società civile. All’orizzonte si profila un’operazione politica e culturale di grande spessore da iniziare subito a partire da Firenze e dalla Toscana, operazione che non può essere delegata all’ “incontro/scontro” tra gruppi dirigenti ristretti ed autoreferenziali


1) Il processo costituente

Con l’elezione di Franceschini e di Anna Finocchiaro l’Ulivo ha oggi i suoi capigruppo
parlamentari. E’l’inizio del processo, la prima tappa, una tappa importante. Ed è l’effetto diretto del risultato delle urne. Come ci ha ricordato Lapo Pistelli nel suo recente articolo (Appunti dopo il 10 aprile)  “non  solo l’Ulivo conquista 2.200.000 elettori in più della somma fra Ds e Margherita, ma il dato rende  ineludibile una riflessione retrospettiva sulla scelta di corse separate dei due partiti al Senato. Sono segnali inequivocabili che Ds e Margherita – ben al di sotto delle proprie aspettative nel risultato del Senato – devono cogliere la domanda che c’è nel Paese  e aprire il cantiere costituente del futuro Partito Democratico, nel quale  i due partiti siano soggetti promotori aperti a  raccogliere anche contributi diversi”.
Aprire il cantiere sapendo, però, che i lavori si profilano complicati e che all’orizzonte già si
intravedono resistenze di ogni tipo.  
Le resistenze al Partito Democratico verranno un po’ da tutte le direzioni; le più pericolose saranno certamente le “resistenze di potere” e le “resistenze “culturali”. Per prevenire le prime non si può che immaginare una difficile leadership “collegiale” che trasformi le rivalità di potere in ricchezza di contributi e pluralità di ruoli. Le “resistenze culturali” sono le più insidiose, sottili e molto difficili da neutralizzare. Alla radice c’è un atteggiamento mentale che potremo definire “chiusura integralista”, ma anche “ricerca compulsiva di un assoluto” che si accentua di fronte alla perdita ( o alla paura della perdita) del senso di appartenenza. I virus della chiusura e dell’integralismo colpiscono tutti gli ambienti, nessuno è immune: credente o non credente. Si pensi alla “saccente presunzione intellettuale” di alcuni settori DS, certo non inferiore all’ “arroccamento narcisistico”che si respira in alcuni segmenti del mondo cattolico.
L’integralismo – è più di un rischio: è un pericolo mortale per il Partito Democratico perché ne contraddice i presupposti fondativi. Per prevenire il diffondersi dell’integralismo ed evitare le sue
conseguenti devastanti c’è un solo rimedio: il Partito Democratico deve assumere – senza se e senza ma – i valori fondamentali del liberalismo politico e colmare rapidamente il deficit di cultura liberale che tuttora condiziona negativamente le diverse componenti dell’Ulivo (socialdemocratiche, cattolico-popolari, ambientaliste,ecc.). Ma il modo migliore di superare gli ostacoli che si frappongono (e che già si intravedono all’orizzonte) è avere in mente un percorso chiaro, una vera e propria “road map” ben definita, sul piano degli obiettivi, delle procedure e dei tempi. Allo scopo di contribuire a questa definizione propongo un’agenda/calendario articolata in dieci punti. Eccoli:
a) L’orizzonte del Partito Democratico – pienamente legittimato dalle elezioni politiche del 10 aprile  – è ormai un’idea largamente condivisa nella Margherita e nei DS .
b) Come trasformare l’idea in un progetto politico? Per fondare un nuovo partito servono un nome ed un simbolo; questi ultimi esistono già (e il simbolo ovviamente è l’Ulivo), ma non bastano. La volontà dei fondatori deve tradursi in due atti fondamentali, il Manifesto politico-programmatico e lo Statuto;
c) Dalla prossima estate si dovrà iniziare la redazione di questi due atti fondamentali avviando in tutto il paese un grande processo costituente;
d) Contemporaneamente e sulla scia di quanto già avvenuto in Parlamento gli eletti DS e Margherita daranno vita ai Gruppi Unitari dell’Ulivo in tutte le assemblee elettive a livello regionale e locale;
e) Il Partito Democratico sarà al tempo stesso “partito degli eletti” e “partito degli elettori” . Il processo costituente non può pertanto limitarsi ai confini delle istituzioni elettive, ma costituire una grande occasione di mobilitazione sociale e democratica e di dibattito culturale in tutto il paese;
f) Questo dibattito si articolerà in due momenti fondamentali:
– i congressi straordinari dei partiti fondatori, congressi che, per il loro significato di “nuovo inizio”, assumeranno un rilievo storico;
– una convenzione capace di aggregare e mobilitare (a partire dai comuni) i cittadini che intendono aderire al nuovo Partito, ma non provengono dalle file dei partiti (le primarie hanno già dimostrato quanto alto sia il potenziale per nuove adesioni);
g) Per avviare il processo è indispensabile costituire un “Comitato Nazionale Costituente” a cui affidare la redazione delle bozze del Manifesto e dello Statuto: redazione particolarmente complessa perché tocca il profilo identitario, i valori fondanti, i contenuti programmatici ed il modello partecipativo e organizzativo del nuovo partito (pluralista, federale e partecipativo);
h) Il “Comitato Costituente” dovrà elaborare le sue prime proposte entro la fine del 2006 e lavorerà in modo aperto ed “interattivo” sollecitando i più ampi contributi da parte della società politica e della società civile;
i) Il “Comitato Costituente” potrebbe essere composto da cinquanta membri, così ripartiti: 20 espressione dei DS, 15 della Margherita, 15 di personalità indipendenti e/o di altre formazioni politiche che intendano partecipare come co-fondatori alla nascita del Partito Democratico. Con un’analoga composizione (perché il progetto politico non sia verticistico, ma realmente radicato nel territorio) si formeranno i “Comitati per il Partito Democratico” in tutte le città e i comuni italiani a partire (come ha ricordato in una recente intervista  Walter Veltroni)  dai quartieri e dai luoghi di lavoro..
l) Il 2007 sarà dedicato all’esame ed alla più ampia discussione delle bozze del Manifesto e dello Statuto; nel 2007 si terranno i congressi dei partiti fondatori e la convenzione dei non iscritti. Se i tempi saranno rispettati – dopo due anni di intenso lavoro costituente – nella primavera 2008 il Partito Democratico potrà finalmente tenere il suo primo congresso.
Se il percorso tratteggiato appare realistico e convincente è il momento giusto per muoversi. Senza aspettare le “direttive romane”, la nostra città e l’intera regione possono proporsi come eccellenti luoghi di sperimentazione politica e avviare sin d’ora la costruzione del Partito Democratico della Toscana. Una volta Firenze era laboratorio politico innovativo; da molti anni, invece, la politica ristagna, ridotta a manovra di potere e confinata nella grigia routine dei suoi ristretti apparati. Tutto sembra ridursi al Palazzo, circondato dall’indifferente apatia della gente e dei ceti intellettuali. Le primarie sono state, tuttavia, un’eloquente riprova che anche a Firenze un’ “altra politica” è possibile. Perché perdere l’ennesima occasione?  Non basta una serata di successo, è indispensabile avviare un processo continuo che getti basi solide. Cosa aspettano i DS fiorentini, la Margherita e le varie associazioni “uliviste” a convocare gli “stati generali dell’Ulivo” da cui far scaturire il Comitato “Firenze per il Partito Democratico”. Molto numerosi saranno i cittadini interessati a partecipare; e la sfida del Partito Democratico è una straordinaria opportunità per essere all’altezza delle migliori tradizioni politiche e civili della città e della regione.
La costruzione del Partito Democratico a Firenze e in Toscana si colloca in una fase molto delicata. I dati negativi che caratterizzano l’andamento strutturale dell’economia indicano l’esaurimento di un ciclo virtuoso che ha consentito di raggiungere elevati standard di reddito e di qualità della vita. Ma durante questa fase espansiva la politica si è progressivamente ripiegata su stessa; nelle istituzioni e nei partiti ha prevalso la logica della rendita di posizione: come ha recentemente ricordato il presidente Martini “ci siamo seduti sul bagaglio della cultura di governo di cui abbiamo lunga tradizione.” In Toscana il dibattito politico ristagna, la vita dei partiti appare molto gracile e priva di dinamismo. La stasi e l’involuzione della politica pesano negativamente sulla società toscana proprio nel momento in cui la crisi ed i crescenti processi di globalizzazione reclamano il coraggio di scelte fortemente innovative. Per rilanciare le attività imprenditoriali e riacquisire competitività, per affrontare le questioni sociali legate ai nuovi flussi migratori ed all’invecchiamento della popolazione, per promuovere la ricerca e l’innovazione la politica deve fare la sua parte ed i partiti non possono limitarsi a gestire i precari equilibri di un ceto politico immobile e autoreferenziale. In questo contesto l’obiettivo di costruire il Partito Democratico della Toscana si presenta come una occasione irripetibile per reagire alla crisi ed invertire la rotta. L’ottimo risultato elettorale dell’Ulivo alla Camera (il migliore d’Italia) e la stessa esperienza delle primarie non possono essere archiviati come momenti episodici e isolati: nel passaggio strategico “dalla Lista dell’Ulivo al Partito Democratico” si delinea una grande opportunità per Firenze e per la Toscana.


2) Tradizioni politiche e discontinuità

Nelle discussioni sul Partito democratico i protagonisti si dividono già  tra chi preme l’acceleratore e chi frena – adducendo ragioni di prudenza e cautela. Ma il dibattito non può limitarsi a “quando” (o a “come”) avviare il processo costituente: è il momento di approfondire i contenuti del progetto politico. Partiamo allora da una domanda difficile: quale identità potrà (non dovrà) ragionevolmente assumere il Partito Democratico? Da molte parti si sottolinea che esso non dovrebbe configurarsi come semplice sommatoria dei partiti esistenti per caratterizzarsi, viceversa, come formazione politica “veramente”nuova. Se l’auspicio di un “nuovo inizio” è senz’altro condivisibile non si può tuttavia trascurare un dato di fatto: il Partito Democratico non nasce da zero, in esso confluiranno nel bene e nel male le eredità dei partiti fondatori. Alcuni dei suoi caratteri distintivi saranno perciò la risultante delle diverse tradizioni politiche che stanno alla base della sua fondazione (e dell’intreccio tra queste). Per delineare la futura fisionomia del Partito Democratico appare dunque indispensabile esaminare gli elementi di continuità con i connotati politici dei partiti fondatori. Questo riferimento al peso delle tradizioni è altresì indispensabile per mettere in evidenza i tratti di necessaria (ed auspicabile) discontinuità. Il processo costituente  metterà in rilievo sia i tratti di continuità sia gli elementi di discontinuità soprattutto sotto il profilo identitario. Alcune componenti identitarie saranno certamente salvaguardate, ma l’incontro tra tradizioni diverse darà inevitabilmente vita ad una nuova identità. La nuova identità si affermerà inevitabilmente in  modo graduale; la fisiologica lentezza del processo crea un vuoto nella percezione dei protagonisti. E’ difficile cambiare la propria identità senza sapere bene quale sarà quella nuova. Tutto ciò crea inevitabilmente timori e paure e la tentazione di rinchiudersi nell’antico recinto identitario. Ma il processo sarà  di scomposizione e ricomposizione degli elementi identitari. Per questo l’analisi deve partire  da una ricognizione delle diverse tradizioni esistenti per poi tentare un approccio comparativo. Naturalmente esistono anche  numerose similitudini tra i partiti dell’Ulivo e diversi aspetti finiscono per sovrapporsi e mescolarsi; così come all’interno della Margherita e dei DS esistono anime diverse che rendono più complessa l’analisi. Ma per formulare ipotesi realistiche sul Partito democratico è indispensabile mettere a fuoco alcuni tratti caratterizzanti (e relativi punti critici) che connotano la cultura politica di ciascuna formazione. L’analisi che segue è volutamente parziale e non esaustiva: l’obiettivo è quello di enucleare alcuni nodi politici rilevanti e valutarne le possibili implicazioni (positive o negative) rispetto alla futura configurazione del Partito democratico. Inizieremo questa esplorazione analizzando alcuni aspetti salienti della cultura politica dei DS per poi allargare l’analisi alla Margherita. Che tipo di “patrimonio” confluirà dai DS nel Partito Democratico? Alcuni elementi hanno certamente radici lontane e profonde dal momento che i DS si caratterizzano come il “partito della transizione”: la lunga transizione dal PCI ad un soggetto politico che non ha ancor oggi un’identità pienamente definita. Nonostante la crisi delle appartenenze ideologiche parlare di “patrimonio” significa far riferimento al patrimonio culturale e di valori (ed al conseguente patrimonio di relazioni sociali).


3) Cultura del lavoro

Da questo punto di vista nel caso del PCI, e poi dei DS, il primo pilastro identitario da considerare è certamente quello rappresentato dai valori e dalla cultura del lavoro. All’interno di questa cultura politica un peso particolarmente rilevante riveste storicamente la “relazione” con i sindacati, e segnatamente la CGIL. La tutela della dignità dei lavoratori dipendenti e la promozione dei loro diritti rappresenta una tradizione “laburista” ancor oggi attuale ed essa – sia pure declinata in forme diverse – resterà sicuramente viva nel Partito Democratico. Non si deve tuttavia trascurare che i DS – nel conferire al nuovo partito una forte attenzione al mondo del lavoro ed una particolare sensibilità ai rapporti con il sindacato – si portano dietro una contraddizione che è bene non sottovalutare. Nel mondo del lavoro i mutamenti sociali e demografici dell’ultimo decennio hanno, infatti, evidenziato nuove fratture (generazionali, ma non solo) di grande rilevanza con cui la tradizione “laburista” non ha fatto i conti fino in fondo. Accanto alle esigenze classiche del lavoro dipendente (simboleggiate dal lavoratore maschio, adulto e relativamente protetto) sono emersi nuovi bisogni sociali provenienti da fasce precarie e marginali: giovani, donne, anziani poveri, immigrati. E tra aree “garantite” e “non garantite” si manifestano domande sociali sempre più diversificate, difficili da ricomporre, potenzialmente conflittuali. Si ricorderà, per inciso, che già durante i governi D’Alema queste fratture sono emerse prepotentemente generando le note tensioni tra l’esecutivo e la CGIL e la conseguente paralisi degli ammortizzatori sociali e della riforma del welfare.
Nell’Italia di oggi queste fratture e queste tensioni si ripropongono in tutta la loro complessità; e su questo terreno i DS porteranno in dote al Partito Democratico insieme ad un’eredità ricca e positiva anche un groviglio di nodi irrisolti. La divisione tra lavoratori “garantiti” e non “garantiti” pone con forza il tema delle nuove disuguaglianze: una spirale destinata ad accrescersi se non contrastata adeguatamente da un riequilibrio strutturale del sistema di welfare. Su questo tema si registra un’ attenzione della piccola minoranza “liberal” di Libertàeguale, ma sorprende come altre anime dei DS (si pensi ai tardivi fautori dell’ortodossia socialdemocratica che fanno capo alla sinistra o alla componente dei “socialisti per sempre”) non colgano come la difesa conservatrice delle visioni sindacali neo-corporative (così come dei correlati “paradigmi socialdemocratici”) entri in stridente contrasto con l’obiettivo strategico di combattere le nuove disuguaglianze. Su questo piano il Partito Democratico si troverà di fronte ad una sfida difficile. Non basta conservare i legami storici con la tradizionale base di consenso DS, occorre anche una forte discontinuità. Se da un lato l’imperativo è quello di “non perdere le radici”, dall’altro è vitale rispondere alle nuove domande accentuando l’autonomia dal movimento sindacale. Al Partito Democratico spetterà il compito di rappresentare (e mediare politicamente) l’insieme contraddittorio delle istanze sociali che provengono dai variegati mondi del “lavoro e del non lavoro”, dei giovani, del precariato e della sottoccupazione. Questo snodo – qui appena accennato – costituisce certamente uno dei passaggi più difficili nel processo di costruzione del Partito Democratico: un territorio accidentato, in bilico tra tradizione e discontinuità, vicino alla quadratura del cerchio.


4) Politica e istituzioni

Per quanto riguarda l'”eredità” dei DS un altro tema di assoluto rilievo è ciò che potremo sinteticamente definire come la “concezione e la pratica del potere pubblico”. L’argomento è spinoso perché l’analisi non può arrestarsi alla soglia delle posizioni ufficiali. E’ necessario scavare in profondità per rintracciare mentalità e comportamenti radicati che non emergono in superficie e che si presentano difficili da decodificare. In via preliminare possiamo osservare come rispetto alla visione “statalista”(propria del PCI e delle tradizioni classiche della socialdemocrazia europea) nei DS si registri una visione più fluida e complessa del “primato del potere pubblico”. In particolare sono tre le dimensioni sulle quali vale la pena soffermarsi: la centralità delle istituzioni pubbliche, l’approccio razionale (top/down) alle politiche pubbliche, il rapporto pubblico/privato.
In continuità con l’esperienza storica del PCI, i DS si caratterizzano per un indiscusso attaccamento alle istituzioni repubblicane, per un forte senso di responsabilità istituzionale, per una grande attenzione ai valori costituzionali ed alla coesione nazionale. Non c’è dubbio che questo patrimonio culturale che i DS si portano dietro abbia un’impronta fortemente virtuosa di cui il Partito Democratico non potrà che beneficiare. C’è da chiedersi semmai se su questo terreno – accanto agli indubbi aspetti positivi – non vi sia anche un limite di cultura politica sul quale vale la pena di riflettere. La centralità attribuita alle istituzioni rischia di mettere in ombra le patologie intrinseche al potere pubblico che non dovrebbero essere eluse nell’analisi politica. Lo Stato non è soltanto strumento di garanzia e di protezione dei suoi cittadini, ma anche potere invasivo e condizionante rispetto alla vita delle persone, delle famiglie, delle imprese e delle comunità. Se si trascura questo risvolto il rischio è che la “retorica del bene pubblico” e la difesa delle istituzioni offuschino una visione critica del ruolo dello stato e del suo complesso e controverso rapporto con la società civile.
Se manca questa prospettiva critica diventa ineluttabile l’identificazione dei partiti politici con le istituzioni e ne discende una perdita di autonomia (e grave crisi) della politica, di cui oggi si colgono sintomi sempre più preoccupanti. Per contrastare questo pericolo il Partito Democratico dovrà coniugare il forte senso di responsabilità istituzionale (una delle eredità virtuose della cultura politica dei DS) con un approccio critico e realistico ispirata ai principi di una moderna cultura liberale. Non è scelta di scelta di poco conto: nell’orizzonte politico del Partito democratico entrerà da protagonista il grande tema della lotta contro la burocrazia e gli apparati parassitari, contro gli sprechi del denaro pubblico, contro tutte le ingerenze indebite del potere pubblico che rappresentano l’altra faccia – o se si vuole il “lato oscuro” – del tessuto istituzionale su cui si fonda la democrazia.
Una visione troppo ottimistica delle istituzioni comporta anche distorsioni negative sul versante delle politiche pubbliche e della loro concreta elaborazione. Non c’è qui spazio per un’analisi approfondita, ma se si da anche solo un sguardo all’esperienza dei governi del centro-sinistra negli anni novanta si osserverà che in diverse occasioni l’impianto riformista ha risentito di questa mentalità “iperistituzionale”. Per usare una formula sintetica potremo ricordare come alcuni disegni riformatori dell’epoca si siano presentati astratti, calati dall’alto, ispirati ad una logica deduttivo-razionale, inclini alla tecnocrazia ed al formalismo giuridico di impronta regolativa. Sempre in quest’ottica anche la fortunata formula della “governance” merita un’attenta revisione critica: non solo per la ridondanza e rigidità dei sui modelli di concertazione, ma anche perché in più di un’occasione (pur dietro il rispetto dei meccanismi formali) essa ha finito per ridursi a mero scambio negoziale tra un ristretto numero di poteri forti e ben organizzati. Il Partito Democratico non potrà che far tesoro dei limiti di queste esperienze innovando una cultura istituzionale influenzata da posizioni che oggi appaiono datate e superate. Il criterio ispiratore di un approccio innovativo alle politiche pubbliche non potrà che far leva sulla domanda (o meglio sulla molteplicità delle domande sociali di consumatori, risparmiatori, contribuenti, ecc. ) e su una effettiva capacità di sintonizzarsi con il paese reale. Per il Partito Democratico ecco un altro aspetto rilevante di discontinuità: si tratta di abbandonare le residue visioni illuministiche ispirate ad un “dover essere” che tanto più appare razionale quanto più si qualifica nei fatti per la sua astrattezza. La scommessa è quella di incamminarsi verso un “riformismo pragmatico” fondato su solide basi empiriche e su un’effettiva capacità di adattamento alla domanda politica.


5)Tra pubblico e privato

Quando parliamo di concezione e gestione del potere pubblico un aspetto cruciale da investigare attiene al cosiddetto rapporto tra pubblico e privato. Nella esperienza di governo dei DS a livello nazionale (e forse ancor più nelle regioni e negli enti locali) l’obiettivo di stabilire un “nuovo rapporto pubblico/privato” è sempre al centro delle priorità. Accanto alla centralità delle istituzioni si registra – almeno a parole – una valorizzazione delle regole di mercato ed una costante attenzione al ruolo dell’ l’impresa. Questa posizione politica è sintetizzata dai vertici DS nello slogan: “più mercato e più stato”. E’ all’interno di questa cornice che le politiche pubbliche hanno cercato di stabilire un nuovo rapporto con il privato cimentandosi con il controverso tema della privatizzazione di beni e servizi. In tutto il paese (ed in particolare nelle regioni rosse) si risponde a questo tema sviluppando un “regime misto” nel quale, accanto alle aziende private ed alle banche, resta una rilevante componente pubblica (con un peso variabile a seconda dei casi). Sono nate così una miriade di imprese miste che operano in una terra di nessuno: esse non rispondono né a stringenti logiche di mercato né tanto meno ai principi ed alle regole della amministrazione pubblica. In pratica si privatizza la natura giuridica e si cedono quote di capitale, ma si conserva un regime sostanziale di monopolio perché non si può (o non si vuole) liberalizzare.
Questo aspetto è cruciale perché se non c’è concorrenza i processi di privatizzazione non producono vantaggi per il cittadino consumatore né in termini di diminuzione dei prezzi né di sana competizione sulla qualità dei servizi. Nonostante questa ovvia constatazione privatizzare quando non si può (o non si vuole) liberalizzare è una politica sostenuta con particolare zelo dai DS (anche se certamente non solo dai DS). Per le aziende coinvolte come azionisti questi processi consentono di acquisire vantaggi (meglio sarebbe dire privilegi) in termini di margini ricavati da tariffe e da “forniture protette”. In questo contesto si accentuano anche i conflitti d’interesse tra imprese e banche, conflitti che ormai costituiscono una caratteristica patologica strutturale dell’economia italiana. Per il potere pubblico che mantiene quote di partecipazione l’unica reale remunerazione è data dall’acquisizione di posizioni e posti di potere (funzionali alla auto- riproduzione del ceto politico). In un paese già così gravemente inquinato dal berlusconismo anche questi fenomeni devono essere attentamente monitorati. Il pericolo è che in questa zona grigia si sommino vizi pubblici e vizi privati, con effetti di distorsione del mercato e di degenerazione della politica ridotta a puro sistema di potere. A livello territoriale – dietro la nobile facciata della governance – si può, infatti, determinare un potere pervasivo fondato sul “triangolo” leader politici-imprenditori e banche a cui si associa il supporto tecnico di professionisti “amici”. Questo è un terreno scivoloso dal quale il Partito Democratico dovrà prendere le distanze; anche su questo piano giunge in nostro soccorso la visione liberale che ha a suo fondamento una netta distinzione di ruoli tra sfera pubblica e sfera privata. Occorre tracciare una nitida linea di demarcazione: da un lato si tratta di liberalizzare e affidare al mercato ciò che risponde ai reali interessi dei cittadini consumatori, dall’altro si tratta di mantenere al pubblico le funzioni strategiche che esso deve conservare e di governarle secondo le regole ed i saldi principi dell’etica pubblica.


6) La politica di genere

Concludiamo questi brevi cenni sull’eredità politica dei DS con un’ultima annotazione. Fin dal tormentato passaggio dal PCI al PDS le donne hanno svolto un ruolo di primo piano immettendo nell’agenda politica il tema delle differenze di genere e le loro implicazioni in termini di nuove libertà e nuovi diritti sociali. Pur tra molte contraddizioni, le complesse tematiche collegate alla liberazione della donna sono divenute patrimonio dei DS dando luogo a campagne politiche, a pratiche di governo e soprattutto ad una crescita della soggettività femminile all’interno del Partito. Nei DS le donne hanno un peso numerico e politico maggiore rispetto agli altri partiti del centro sinistra e il loro contributo non è limitato a questioni specifiche o settoriali, ma si muove a 360 gradi su tutto lo spettro dell’agenda politica. Se il dibattito sulle “quote rose” ha messo in rilievo la crescente lontananza dell’universo femminile dalla politica, l’esperienza DS è in controtendenza. Questa maggiore sensibilità non muta tuttavia il panorama generale che resta di segno negativo. Nella società italiana il ruolo della donna è radicalmente cambiato (e sta continuamente cambiando) mentre il mondo della politica è rimasto al palo, in gran parte estraneo ai profondi cambiamenti sociali e di costume: da un lato la politica si sente minacciata nei suoi attuali equilibri di potere, dall’altro teme la carica conflittuale che i processi di liberazione della donna si portano dietro. Nel mondo femminile la politica è peraltro vissuta con estraneità: si prova fastidio per il suo linguaggio astratto ed avulso dalla realtà e si manifesta una crescente insofferenza per comportamenti che sempre più spesso appaiono rituali inconcludenti. Ben diverso è il discorso nel mondo del volontariato di cui le donne rappresentano la parte più vasta e vitale. Che la passione civile delle donne si eserciti nel volontariato ma non nella politica, è un ulteriore e preoccupante il sintomo della grave crisi di credibilità dei partiti e delle istituzioni politiche. L’estraneità delle donne alla politica non sembra destinata a mitigarsi ed alto è il rischio che (anche nel centro sinistra) una forza di inerzia di connotazione “maschilista” possa riprendere il sopravvento condizionando negativamente la fase di nascita e di consolidamento del nuovo Partito Democratico. E’ bene prevenire questa involuzione conservatrice: altrimenti la politica dell’Ulivo rischia di perdere l’appuntamento con una delle più grandi sfide della contemporaneità. Non si può peraltro dimenticare che la rivoluzione femminile è per sua intrinseca natura “rivoluzione liberale” in quanto fondata sul processo di liberazione della persona e sulla conquista di nuove libertà e di nuovi diritti. Proprio per questo il Partito democratico dovrebbe caratterizzarsi come il “partito delle libertà femminili” (libertà dalle discriminazioni, ma anche libertà di esprimere a pieno le proprie soggettive diversità). Ed in vista di questo ambizioso traguardo la tradizione politica delle donne DS costituisce un prezioso punto di partenza, un patrimonio di idee e di esperienze dal quale non si può prescindere. In questo campo l’orizzonte non può tuttavia limitarsi alla sinistra italiana. In Europa – ed in particolare nei paesi nordici – si sono sviluppate politiche di genere che hanno prodotto grandi trasformazioni nei comportamenti dei poteri pubblici e delle stesse aziende. Per il Partito Democratico c’è qui una grave arretratezza da colmare allineando le proprie elaborazioni e la propria cultura politica ai più avanzati standard europei.


7) Tentazioni neo-corporative

Accanto ai DS la costituzione del Partito Democratico vedrà l’apporto determinante della Margherita, soggetto politico di impianto pluralista e di recente formazione. Come è noto la Margherita nasce dalla confluenza di quattro aree: l’area cattolico-popolare (gli eredi di una parte della DC), quella “ulivista”, quella ambientalista, quella laico-liberale. L’eterogeneità delle componenti ha certamente creato non poche vischiosità nell’iniziale vita del partito, ma nella prospettiva del Partito Democratico questa pluralità di apporti costituisce un prezioso valore aggiunto. Questa pluralità, infatti, si caratterizza come feconda sperimentazione di incontro tra storie politiche diverse ed in qualche modo “anticipa” il più vasto processo di aggregazione e sintesi unitaria che ci attende nel prossimo futuro. Per cogliere a pieno le potenzialità di questo patrimonio unitario ed indagarne anche i limiti, è utile analizzare le diverse componenti che hanno dato vita alla Margherita, a partire dalla tradizione politica DC-Popolari.
Il ruolo della DC come pilastro centrale della prima repubblica è ormai fuori discussione: in taluni ambienti esso è addirittura ricordato con nostalgia. Ma all’interno di questa grande tradizione politica (come del resto in quella PCI- DS) non si possono vedere solo le luci. Nell’esperienza storica della DC (e dei popolari) vi sono zone d’ombra sulle quali occorre riflettere e con le quali il Partito Democratico dovrà fare i conti. Numerose ricerche empiriche sull’ “anatomia del potere DC” concordano nell’evidenziare alcuni punti critici: i caratteri assai segmentati e “categoriali” della rappresentanza sociale, la mediazione politica declinata in chiave neo-corporativa, la tolleranza nei confronti di pratiche “familistiche” nel mezzogiorno. In una formula certamente forzata, ma suggestiva, potremo così riassumere questi aspetti: il pubblico impiego prima dei cittadini utenti, le categorie commerciali ed il mondo delle professioni prima dei cittadini consumatori, il sistema bancario prima dei cittadini risparmiatori,ecc…Con la crescita dell’interventismo pubblico questa tendenza allo scambio neo-corporativo si è via via accentuata dando vita ad una rete molto articolata di micro gruppi di interesse che hanno coinvolto la DC, molteplici articolazioni dello Stato e vasti settori della società italiana. Per la verità nessun partito della prima repubblica è immune da questo schema, ma per il suo ruolo predominante la DC è stata al centro di un sistema consociativo che ha fortemente caratterizzato le politiche pubbliche nonché moltiplicato le forme di collateralismo attivo. Nell’esperienza storica italiana questo assetto si è sviluppato in tendenziale contrasto con i “i valori di una società aperta”, una visione della società fondata sul prevalere del senso di cittadinanza rispetto alle protezioni corporative, dello spirito civico rispetto alle appartenenze, della competizione e del merito rispetto ai legami di fedeltà e “parentela”. E’ interessante osservare come oggi – in vista del Partito Democratico – i vertici della Margherita insistano molto sulla valorizzazione di meriti e talenti nonché sul superamento di ogni forma di privilegio corporativo e di residuo collateralismo. Queste affermazioni – assolutamente condivisibili – rischiano tuttavia di restare petizioni di principio se non si mette in discussione un modello di rapporto tra politica e società che non appartiene soltanto alla prima repubblica, ma che in alcuni segmenti della società italiana è ancora vivo ed operante. Nel momento in cui si esamina quanto di positivo la tradizione DC/popolari può apportare al futuro Partito Democratico anche il “deficit di cultura liberale” a cui abbiamo appena accennato deve essere valutato con attenzione. Rispetto alle visioni ed alle pratiche neo-corporative si avverte, infatti, l’esigenza di marcare una netta discontinuità per evitare che eredità remote e recenti possano condizionare negativamente la nascita del Partito Democratico.


8) Solidarismo sociale

Un altro aspetto rilevante del patrimonio “popolare” su cui vale la pena di soffermarsi è la costante attenzione alla società nonché il forte rispetto dell’autonomia delle diverse articolazioni sociali. Lontana dalle visioni organicistiche e istituzionaliste tipiche del PCI, la politica è così concepita come un’attività “parziale” e “limitata” a cui concorrono liberamente comunità locali e gruppi sociali che restano comunque profondamente attaccati alla loro specifiche radici e non si identificano con la logica delle istituzioni politiche. Alla base di questa visione vi è un vasto tessuto di partecipazione sociale che si esplica in una pluralità di gruppi e associazioni impegnate sul fronte dell’equità sociale e della solidarietà (oggi testimoniato dallo straordinario impegno profuso in materia di accoglienza e di politiche per l’immigrazione). E a proposito di autonomia dalle istituzioni paradigmatico appare l’universo del volontariato che ricerca (e trova) un rapporto con la politica, ma non si riduce ad essa neppure nei momenti in cui massima è l’unità politica dei cattolici. In una visione liberale (da non confondersi con una concezione ottusamente liberista) i temi della solidarietà e dell’equità sociale hanno piena cittadinanza: il fine della libertà non è raggiungibile senza pari opportunità e senza un elevato grado di coesione sociale. Tale visione esalta il pluralismo degli apporti ed in particolare il ruolo delle libere associazioni. Attraverso la loro azione si realizza una solidarietà operante che si contrappone all’idea di uno Stato onnipresente ed onnicomprensivo; uno Stato che, sia detto per inciso, dovendo proteggere tutto e tutti finisce in realtà per moltiplicare la presenza dei suoi apparati, invece di incidere nelle reali aree di bisogno. Il rispetto del pluralismo associativo e dell’autonomia delle aggregazioni sociali (e la valorizzazione del loro autonomo apporto alla crescita sociale e civile del paese) può costituire un positivo e rilevante tratto di continuità tra Partito Democratico e l’eredità popolare che abbiamo or ora richiamato.


9) Impegno politico, fede e laicità dello Stato

Il richiamo alla tradizione democratico cristiana e popolare ci introduce in un territorio particolarmente “intrigante” e complesso: il rapporto tra fede religiosa, impegno politico e laicità dello Stato. Nella costruzione del Partito democratico questo tema sarà certamente uno degli argomenti più dibattuti e controversi. Il referendum sulla fecondazione assistita ha aperto una “recente ferita” basti pensare alle vivaci polemiche tra schieramenti contrapposti su una materia molto complicata alla quale era difficile guardare senza pregiudizi e senza preconcetti. Ma ben al di là degli esiti della recente battaglia referendaria il tema è assolutamente centrale e merita di essere adeguatamente approfondito. Spesso si crede di risolverlo con una qualche scorciatoia preventiva: sia essa l’appello alla libertà di coscienza o il richiamo alla mera separazione tra sfera pubblica e sfera religiosa. Se ragioniamo con attenzione ci accorgiamo che il primo aspetto, la libertà di coscienza, non è in realtà un punto di partenza che ci consente di evitare pregiudizialmente i tanti dilemmi etici e politici; essa è semmai l’esito finale di una scelta che scaturisce da un confronto dialettico e da una faticosa ricerca personale e collettiva. Non è questa osservazione di poco conto: in questo modo non ci si ferma alla soglia, non si escludono pregiudizialmente i più controversi dilemmi della sfera etica e religiosa dall’agenda politica. Credenti e diversamente credenti (per riprendere la felice espressione di Norberto Bobbio) dibattono fra di loro, entrano nel merito dei quesiti, cercano nel rapporto con l’altro una qualche risposta.
Seguendo questo approccio (che potremmo forse definire di “tolleranza attiva”) è possibile promuovere il dialogo tra storie politiche diverse nonché abbattere la duplice barriera dell’anticlericalismo da un lato e dell’integralismo dall’altro. Per questo il Partito Democratico non potrà arrestarsi alla soglia del confronto politico-valoriale in nome di una libertà di coscienza che scatta come una sorta di “misura preventiva”; il Partito Democratico dovrà, viceversa, caratterizzarsi come un laboratorio di idee; esso dovrà promuovere al suo interno il più ampio confronto tra le diverse sensibilità etiche e religiose: un reciproco ascolto dagli esiti non predefiniti in cui i valori della fede e quelli dell’etica “laica” si misurano liberamente di fronte alle grandi sfide della contemporaneità. Solo alla conclusione di questo percorso dialogico ciascuno seguirà il proprio intimo convincimento politico aderendo a scelte comuni e condivise oppure dissentendo in nome della propria sacrosanta libertà di coscienza. Con tale visione si prospetta e si legittima una concezione dell’impegno politico – libero ed autonomo – che non presuppone “obbedienza” a dogmi di natura ideologica o religiosa, ma che fonda nelle scelte di fede o nelle motivazioni “laiche” le ragioni autentiche delle propria testimonianza politica e civile. In questo quadro la fede è motivazione e fonte di ispirazione di un impegno politico che abbina il più autentico “spirito di servizio” alla continua ricerca di soluzioni “terrene” che non sono mai “preconfezionate” o “predefinite”. Ed al di là delle diverse motivazioni che sottendono l’impegno politico, è proprio nella continua ricerca di soluzioni “terrene” che si creerà nel Partito democratico un nuovo spazio “meticcio” in cui possa liberamente “mescolarsi” una molteplice varietà di punti di vista, di storie politiche e di esperienze personali.
Come abbiamo appena accennato, accanto al rapporto tra fede ed impegno politico, l’altro nodo su cui riflettere criticamente è quello relativo alla separazione tra sfera politica e sfera religiosa. Questo aspetto tocca al cuore i controversi rapporti culturali e di potere tra diverse istituzioni. Nell’affrontare questo tema molti si limitano ad invocare una netta separazione, ma – come abbiamo già detto a proposito della libertà di coscienza – risolvere i dilemmi in via preventiva è una scorciatoia illusoria. Definire una netta linea di demarcazione tra aree di competenza ci impedisce di cogliere l’inevitabile connessione che lega i diversi piani. Si può davvero immaginare una sfera pubblica ignara o indifferente di fronte ai messaggi ed alle iniziative della Chiesa o viceversa una Chiesa sorda e silente di fronte alle attività ed alle posizioni dello Stato? Nei rapporti tra istituzioni politiche e istituzioni religiose non si può tracciare un confine di materie (questo è il mio campo, questo è il tuo) perché tutto ciò che ruota attorno al destino della persona umana è fondato su un intreccio inestricabile di molteplici dimensioni: le libertà politiche e civili, i diritti sociali, le relazioni tra etica e scienza, i rapporti tra storia e natura, ecc. Da angoli visuali diversi Stato e Chiesa si confrontano inevitabilmente con questa realtà multidimensionale. Il discorso può dunque trovare una sua composizione non in un’astratta separazione di competenze, ma nel mutuo riconoscimento di sé e nel dialogo rispettoso delle reciproche autonomie. Stato e Chiesa hanno innanzitutto libertà di parola. E su questo piano hanno ciascuno piena libertà di “ingerenza” sull’altro. Non hanno senso le ricorrenti polemiche contro le interferenze dei vescovi su un versante o contro le critiche al papato che provengono dal lato opposto. Ambedue sono pienamente legittime: elementi costitutivi e vitali del discorso pubblico.
Naturalmente c’è una distinzione da fare sul piano del potere: sappiamo che il rapporto tra lo Stato e la Chiesa (o altre confessioni) non è simmetrico. Come ci insegna la lezione degasperiana se alla Chiesa spetta la più ampia autonomia di espressione, iniziativa o giudizio, allo Stato si riconosce un particolare attributo, quello della sovranità, ovvero della deliberazione politica in ultima istanza. La capacità di cogliere e riconoscere “laicamente” e pienamente questo attributo di sovranità sta alla base dell’esperienza dei cattolici democratici e del loro impegno in politica. Su questo punto si incardinano le migliori pagine di storia “liberale” della DC: così inteso il pieno rispetto della sovranità (e correlata laicità) dello Stato rappresenta una fertile eredità politica da cui il Partito democratico può trarre insegnamenti preziosi. In proposito è inoltre utile ricordare come sul piano delle verità terrene la sovranità dello Stato (fondata sulla libertà, sul costituzionalismo e sulla democrazia) si profili come bene non negoziabile. Sotto questo profilo essa si configura come un “nocciolo” di principi assoluti che appaiono lontani da ogni forma di relativismo. Ma nel contempo parliamo di un genere molto particolare di valori assoluti: parliamo, di valori che contengono in sé una forte “cultura del limite” ed un grande spirito di tolleranza. Nell’intrinseca e felice combinazione di valori non negoziabili e spirito di tolleranza sta certo un’importante barriera contro il relativismo nichilista, ma non solo. Questi valori costituiscono anche un formidabile baluardo contro l’ integralismo di matrice religiosa. In epoca di fondamentalismi imperanti è bene che questo richiamo alla cultura del limite (ed allo spirito di tolleranza) sia iscritto nel DNA del nuovo Partito Democratico.


10) Ambiente, multiculturalismo e politiche urbane

Nella Margherita la componente ambientalista trae origine dalla lunga esperienza di Lega Ambiente e si qualifica per l’originalità del suo contributo, da sempre attento non solo ai temi specifici dell’ambiente, ma anche alle grandi sfide del presente quali la multiculturalità e le politiche urbane. Diversamente da tante altre realtà dell’arcipelago verde la sensibilità ambientale non si riduce a mera protesta; accanto alle campagne di denuncia e di contrasto l’attenzione è, infatti, costantemente focalizzata sull’idea che le risorse ambientali (e culturali) non siano soltanto oggetti da tutelare passivamente, ma costituiscano vere e proprie opportunità per uno sviluppo sostenibile. Se la compatibilità ambientale è ovviamente un vincolo da porre allo sviluppo economico il discorso non si ferma qui. Anche la “compatibilità economica” delle politiche di sviluppo ambientale diviene un aspetto centrale dell’elaborazione politico-programmatica. L’ambiente (e la cultura) diventano così risorse primarie da valorizzare per la crescita di attività economiche eco-sostenibili. Seguendo questa impostazione politica si apre la strada ad una nuova generazione di attività produttive ed alla conseguente nascita di nuove imprese e di nuovi posti di lavoro. Dall’agricoltura alle nuove tecnologie, dal turismo all’energia, dall’industria ecologica ai servizi culturali si creano opportunità imprenditoriali innovative che tutelano l’ambiente mentre producono reddito. Al centro di questo modello alternativo di sviluppo sta una crescente domanda del pubblico che rifiuta le impostazioni tradizionali (e non solo per i costi ambientali) e spinge verso nuove frontiere di ricerca. Si crea così un circolo virtuoso che rompe abitudini consolidate e crea le condizioni per una riconversione dei processi produttivi, ma anche dei consumi e degli stili di vita. Questo tipo di vocazione ambientalista, o meglio questa capacità di coniugare sicurezza ambientale e sviluppo economico, costituisce un potenziale di grande rilevanza che il Partito Democratico dovrà coltivare adeguatamente e porre al centro delle proprie politiche pubbliche a livello nazionale e locale. In ambito locale un’importanza tutta particolare assume il ruolo della città. Di fronte al degrado delle periferie, ai pericoli per la salute dei cittadini, alla crescente emarginazione sociale degli immigrati le politiche urbane richiedono un approccio creativo che metta in discussione assetti di potere, abitudini consolidate, tempi e organizzazione del lavoro, gestione della vita quotidiana. Di fronte alle nuove domande di accoglienza ed all’incontro di culture provenienti dai più diversi angoli del mondo sono i valori della città ad entrare in gioco: i sistemi della formazione, della sicurezza e della salute richiedono una diversa organizzazione urbana che favorisca un nuovo patto di convivenza e condivisione. Nessun modello multiculturale ha ancora risposto pienamente alle esigenze poste dalla “globalizzazione urbana”; le città si sono trasformate in un laboratorio di ricerca dove è sempre più difficile mediare le contraddizioni: tutelare la memoria storica, ma anche disegnare e costruire nuovi spazi di espressione, valorizzare le identità tradizionali, ma anche promuovere attivamente le culture delle nuove comunità. Su questo fronte per il Partito Democratico si apre una grande sfida nel governo delle città: come coniugare la tutela dell’ambiente e delle tradizioni con la capacità di includere i nuovi ceti urbani che non cercano solo opportunità di reddito, ma anche nuovi territori di riconoscimento, di espressione culturale e di libertà. Nel linguaggio politico corrente una materia così delicata viene sbrigativamente riassunta nel termine “integrazione sociale”. Ma l’integrazione è una formula ambigua perché allude a forme di “adattamento” che possono aprire la strada all’omologazione culturale. Tutelare l’ambiente non significa soltanto tutelare i beni materiali, ma anche tutelare l’identità delle persone e le loro libertà; significa perciò contrastare anche i fenomeni di omologazione culturale. Più che affidarsi all’ambigua formula dell’ “integrazione” si tratta di promuovere la libera espressione delle diversità salvaguardando così, insieme al patrimonio storico, i valori e le identità delle nuove comunità urbane.


11) Le primarie, l’Ulivo ed il Partito Democratico

Dopo aver accennato al filone ambientalista spostiamo la nostra attenzione sulla componente della Margherita che è solita definirsi “ulivista”. Se è certamente riduttivo limitare la variegata cultura dell’Ulivo ad una sola corrente di pensiero è tuttavia innegabile il contributo determinante che questo “pezzo” della Margherita ha offerto all’Ulivo sin dalla sua fondazione. Dieci anni fa con la nascita dei “Comitati Prodi” e dell’Ulivo si delinea un disegno politico molto preciso. Con la caduta del muro di Berlino e la crisi della prima repubblica è il momento di abbattere gli steccati e creare un soggetto nuovo che superi le tradizionali divisioni politiche e partitiche. In questo disegno c’è un forte spirito unitario ed una carica innovativa che suscita ampi consensi ed una vasta mobilitazione nel paese. All’interno di questo fermento culturale si fa continuamente appello al ruolo della società civile e non si risparmiano pesanti critiche al funzionamento dei partiti. Ben presto questa visione “movimentista” dell’Ulivo entra in collisione con un punto di vista diverso sostenuto con altrettanta energia dalle forze politiche tradizionali: secondo questa concezione l’Ulivo è in realtà il nome e il simbolo di una coalizione di partiti alleati. Non è differenza da poco. Mentre la mobilitazione ulivista attraversa un’inevitabile fase di riflusso i partiti di centro sinistra si riorganizzano e ricostruiscono le loro identità e la loro fisionomia politica. Questa “doppia interpretazione” dell’Ulivo ha creato nell’ultimo decennio numerose situazioni di stallo e difficoltà; ed è soltanto con il recente progetto del Partito Democratico che si delinea finalmente una effettiva possibilità di ricomposizione.
Mentre nella sua visione ristretta di alleanza interpartitica l’Ulivo non è in grado di offrire reali spazi di partecipazione alle energie sociali che non aderiscono ai singoli partiti, nella sua concezione più ampia il movimento dell’Ulivo evoca la speranza di canali di partecipazione molto più vasti, ma nella pratica essi si rivelano velleitari e frustranti per mancanza di sbocchi politici. In questo contesto le molteplici associazioni uliviste sparse in tutto il paese (si pensi per tutte alla rete dei cittadini per l’Ulivo) sono costrette a giocare “in difesa” e sostanzialmente relegate in un ruolo marginale. Neppure l’esperienza delle liste unitarie alle europee ed alle regionali è sufficiente a sbloccare la situazione. In questo caso l’elettore è sì in grado di pronunciarsi in favore dell’Ulivo, ma subito dopo il voto il patrimonio unitario si disperde e la logica dell’appartenenza partitica riprende inesorabilmente il sopravvento.
Di fronte a queste ricorrenti difficoltà gli ulivisti della Margherita hanno dimostrato di muoversi con lungimiranza ed intuito politico. La loro insistenza per le primarie ha, infatti, consentito di innescare un meccanismo virtuoso (e per molti aspetti sorprendente) che deve essere oggetto di attenta riflessione. Le primarie sono state organizzate dai partiti, ma hanno anche offerto un grande occasione di autonoma partecipazione dei cittadini. Come è noto i milioni di elettori che hanno risposto positivamente sono molto superiori al totale degli iscritti ai partiti dell’Unione. E la grande maggioranza dei votanti che ha scelto Romano Prodi non ne ha semplicemente legittimato la leadership, ma ha dato anche un forte ed inequivocabile messaggio politico in direzione dell’unità, del superamento degli steccati. Nell’evento primarie non c’è stata dunque contrapposizione tra società civile e partiti, al contrario esse hanno rappresentato un momento di grande passione politica, di fiducia e di positiva collaborazione. Questo tipo di ricomposizione ha un grande potenziale strategico. Al pari degli iscritti ai DS, alla Margherita ed ad altre formazioni politiche i milioni di cittadini che si sono espressi per Romano Prodi sono i potenziali fondatori di un nuovo partito capace di raccogliere l’eredità politica dei partiti tradizionali, ma anche di aggregare nuove energie ed introdurre rilevanti elementi di discontinuità. In questo nuovo orizzonte salta la sterile contrapposizione tra partiti, Ulivo e società civile; le critiche e l’insoddisfazione per i partiti (così come le spinte antipartitiche) restano alle nostre spalle perché c’è un grande obiettivo che unisce – senza distinzioni – aderenti e non aderenti ai partiti: la costruzione di un nuovo soggetto politico (il Partito Democratico) in cui tutti possono riconoscersi.
Nelle pagine precedenti abbiamo cercato di elencare alcuni dei nodi politici con i quali il Partito Democratico dovrà concretamente misurarsi, ma la lezione delle primarie mette in evidenza un ultimo elemento su cui concentrare l’attenzione. Come abbiamo accennato sono stati i partiti ad organizzare le primarie, i partiti a stimolare la partecipazione dei cittadini. Da questa azione dinamica emerge una funzione politica propulsiva da non sottovalutare. Siamo abituati ad un’immagine debole e frammentata dei partiti, ridotti alla gestione delle loro anguste logiche organizzative, schiacciati sulle istituzioni, impegnati a rincorrere i media, privi di un’autentica autonomia politica. Le primarie ci hanno offerto, viceversa, un panorama diverso, un panorama in cui le forze politiche possono motivare e mobilitare milioni di persone. Da questa capacità di mobilitazione emerge un’idea diversa del far politica, un diverso rapporto tra partiti e società: una lezione paradigmatica da cui trarre tutte le conseguenze. La lezione delle primarie ci dice che non si tratta soltanto di scegliere democraticamente i candidati, ma che la scommessa è ancora più impegnativa. I partiti devono intercettare, raccogliere e organizzare le domande che attraversano la società e tradurle in azione politica: è su questa capacità – tutta da conquistare – che si gioca il futuro del Partito Democratico.