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3 Marzo 2005

“Voglio ancora la fine della proprietà privata”

Autore: Aldo Cazzullo
Fonte: Corriere della Sera

«Se penso a mio padre lo rivedo nel rito della vestizione, il giorno delle elezioni: l’abito buono grigio scuro, le scarpe nere, la camicia bianca immacolata, il fiocco di seta nera alla Lavallière, e il cappello nero a larghe falde, al posto del basco di ogni giorno». Anche Enrico Bertinotti aveva il gusto del vestire. Recluta a Caporetto, spalatore di carbone sulle locomotive a vapore, fuochista, macchinista. Autodidatta e socialista, come il figlio Fausto. L’unico leader della sinistra italiana ad aver avuto una formazione proletaria, ad aver imparato a nuotare non nel mare (visto la prima volta a 14 anni) ma nei navigli, a leggere non sui classici ma sulle pagine sportive dell’Avanti!, a crescere non in dimore borghesi ma in una casa di ringhiera «all’estrema periferia di Milano», a giocare non sui prati ma nelle marcite «con le bisce d’acqua che passavano tra le gambe». «Papà era un grande educatore». Due gli insegnamenti fondamentali. Un’istruzione teorica: «Quella cultura “dalla culla alla tomba”, che passava per il socialismo inteso come autogestione e l’abolizione della proprietà privata». E una raccomandazione pratica: «Papà era colto ma parlatore misurato, diversamente da me. Appena salivamo sul tram o su un treno diceva: “Fausto, mi raccomando, parla poco, sai che la gente si infastidisce”». Non gli ha dato retta. Marco Bosio, antico compagno, ha raccontato di quando a una manifestazione fascista in piazza Martiri a Novara «Fausto voleva convincere i carabinieri in tenuta antisommossa che dovevano sciogliere il corteo e appoggiare noi, di sinistra, che protestavamo. Lo fece con tale insistenza che alla fine i carabinieri non ci videro più e lo riempirono di botte. Lo portammo malconcio in un bar perché si riprendesse». E poi le interrogazioni all’istituto per periti industriali «Omar», dove si diplomò «con un paio d’anni di ritardo», parlando per ore anche se impreparato. Le cadute dalla Vespa perché guidando si girava verso il passeggero (sempre il compagno Bosio) a discutere e gesticolare. Il soprannome dei tempi del sindacato, Malabrocca, come la maglia nera del Giro (proprio lui che era tifoso di Coppi), perché alle riunioni rimaneva sempre l’ultimo. Il resto l’abbiamo sentito di persona in questi anni. Quando disse di voler essere un monopattino; di amare penne e matite, Hammet e Chandler, impermeabili e vestiti usati, il Florian di Venezia e il Grand Hotel dell’isola Borromea, il jazz e La battaglia di Algeri, i portaocchiali e la lozione da barbiere professionista Floid; di avere una casetta di 40 metri quadri a Dolceacqua; di portare in tasca solo pochi euro «perché al resto pensa mia moglie Lella»; di aver rinunciato all’unico capo in cachemere mai posseduto; di aver chiamato il figlio Duccio come Duccio Galimberti. E poi quando una giuria di 14 giornaliste parlamentari lo elesse «il più virile» insieme con D’Alema, «il più gentile» insieme con Fini e «il più elegante», da solo (le lettrici di Anna lo designarono invece «il più vanesio», davanti a Berlusconi); quattro signore di Bologna fondarono il fan club «Bertinotti ti amo»; e Ambra Angiolini lo accolse in tv urlacchiando «Fausto quando mi piaci!» (ma forse era Boncompagni in cuffia). E ancora quando invitò a bruciare le cravatte di Hermes per protesta contro i test nucleari francesi, o giustificò l’assalto di José Bové ai McDonald’s («Rifondazione preferisce la cucina mediterranea» fece anche scrivere in un comunicato). Il Parolaio Rosso, lo chiamò Giampaolo Pansa. Finché dimostrò di saper non solo parlare, ma anche fare. E di non essere affatto votato alla sconfitta.
«In questo tempo – dice ritoccando la relazione con cui oggi al Lido di Venezia aprirà il congresso – ho corso dei rischi pazzeschi». La rottura con Prodi e la scissione. «Non una scissione laica, come le altre. Una crociata. La fecero per distruggerci. Delenda Carthago. Un’operazione eterodiretta con un unico obiettivo: cancellarci», dai tg dell’Ulivo a Nanni Moretti, il quale dopo le elezioni del 2001 disse da Cannes: «Non capisco perché Berlusconi ringrazi tutti gli italiani quando dovrebbe ringraziarne uno solo. Bertinotti». Lui però aveva appena vinto un’altra scommessa: sopravvivere, superare il 4% mentre Cossutta («non abbiamo più rapporti») si fermava al 2, vedere il centrosinistra sconfitto e dimostrare che con Rifondazione al Senato si sarebbe vinto. L’ultimo grande rischio fu proprio quando Moretti e Cofferati gli insidiarono la leadership della sinistra radicale. «Ma io questo non l’ho mai pensato. Che potevano fare? Fondare un altro partito laburista? Prendersi il partito di D’Alema e Fassino? Impossibile». Così lui è arrivato all’accordo con Prodi. Finirà come l’altra volta? La trattativa infinita? La rottura?
Bertinotti alza la testa dalla relazione. Tossisce. Si infila un maglioncino, non di cachemire. «Rispetto al ’96 è cambiato tutto. Allora c’era la desertificazione sociale, il silenzio della piazza, la stasi dei movimenti. E c’erano due forze distinte, lontanissime, ognuna con il suo programma. Stavolta è diverso. Al centro della scena ci sono i movimenti. Le politiche neoliberiste sono fallite. Il governo Berlusconi ha riacceso la lotta sociale. Stavolta il programma si farà insieme. E non ci accontenteremo di simboli, di bandiere, come l’altra volta: le 35 ore, la scala mobile, la patrimoniale. Stavolta non si tratta di influenzare alcune scelte, ma di dare l’ispirazione generale, di improntare tutta la politica del governo». Dice così perché è alla vigilia di un congresso difficile, con quasi metà partito contrario all’accordo con Prodi. «No. La lealtà al programma è importante. Ma il programma lo scriveremo anche noi. E i movimenti non saranno messi di fronte al fatto compiuto; saranno interpellati prima». Nessuna cambiale in bianco: «Il patto sarà aggiornato, corretto, revisionato nel tempo. Sempre ascoltando i movimenti, i sindacati. Vivremo nel clima della riforma. Produrremo democrazia e partecipazione: una, dieci, mille Puglie; mille Vendola. E poi stavolta al governo ci saremo anche noi». Lei? «No, non io. E’ escluso. Ci saranno politici, e personalità». Lei tra cinque anni dove sarà? «Guardi, io ho quasi 65 anni. La politica ha i suoi tempi, e il mio non è eterno. Gli incarichi operativi non sono a vita».
E’ cambiato tutto anche rispetto all’ultimo congresso, Rimini 2002. Allora Bertinotti faticò a imporre a tutti i delegati la condanna di Stalin, di cui il comunismo sovietico si era liberato già nel ’56, quando Fausto perdeva il suo primo anno all’istituto Omar di Novara. Nel frattempo ha fondato sulla tomba di Rosa Luxembourg il partito della sinistra europea, criticato Castro («ma resto convinto che Fidel fu profeta quando al processo intentatogli da Batista urlò “la storia mi assolverà”»), marciato con i cattolici («però non ho rivelato nulla di nuovo: al tempo di mio padre, ai cortei nuziali o funebri i socialisti si fermavano sul sagrato; io sono uno che entra in chiesa»). Rifondazione oggi non è più solo comunista. «Diciamo che il comunismo è come una grande opera d’arte, imprigionato in un involucro che ne ha preso la forma e l’ha formato; e noi oggi dobbiamo liberare l’originale a picconate. O forse no, anche questa è un’immagine novecentesca. Diciamo piuttosto che la penso come Frei Betto: tra libertà, democrazia e socialismo, tutte parole usurate, la parola più fresca è ancora socialismo. Il Novecento non lascia solo macerie; è il secolo in cui le masse danno la scalata al cielo». Lei sogna ancora il comunismo ideale? «No. La mia è l’utopia concreta di Bloch. L’ispirazione a essere liberi e uguali. La critica alle basi materiali dell’ineguaglianza e dell’alienazione, che hanno assunto le forme della globalizzazione ma portano ancora il nome terribile di capitalismo. E la base da rimuovere restano i rapporti di proprietà». Un obiettivo da lungo periodo. «Certo: la proprietà privata non si può abrogare per decreto. Ma è un obiettivo». Su questo, Fausto Bertinotti ha dato ascolto al padre Enrico. E pazienza per i 40 metri quadrati a Dolceacqua.