Gentile Direttore, dodici
anni fa passeggiando con Parisi in un weekend bolognese… potrebbe
cominciare così il “diario del Partito Democratico”.
Cosa succedeva in
quella passeggiata? Si discuteva degli equilibri di una coalizione che
voleva prepararsi a una dura e difficile – allora si sperava non lunga, ma
fu poi lunghissima – campagna elettorale, ci si scambiava opinioni
soprattutto sulla perplessità che, quel giorno, emergeva da un editoriale
sul Corriere della Sera nel quale si delineava il pericolo che intorno alla
Quercia si sviluppassero solo “cespugli”.
Fu quel pomeriggio che decidemmo,
per le strane ispirazioni che in politica, talvolta, ti colgono, di
rispondere che, accanto alla quercia, avremmo piantato un robusto e
frondoso ulivo. Tredici anni fa, guardando in televisione le prime
performance politiche di Berlusconi… potrebbe essere un altro incipit
dello stesso diario.
Analizzando
il messaggio e, soprattutto, il linguaggio del neocandidato del
centrodestra, il suo sapere catalizzare quel sentimento di rifiuto
della politica che il terremoto di tangentopoli
aveva generato in tanta parte del Paese, quella straordinaria attitudine
alla semplificazione, che in un discorso a Roma circa un anno dopo mi portò
a definire la sua la politica del “Se po ffa”, “la politica di un partito
che sembrava il partito di quelli che lasciano la macchina in seconda fila”
mi consolidavo nella convinzione che si dovesse offrire al centrosinistra
una visione politica eticamente nuova, ma che tenesse anche conto del
cambiamento che la legge elettorale imponeva alla politica e ai partiti.
Mutazione, quest’ultima, che Berlusconi dava il segno di avere compreso
appieno, mentre il centrosinistra, che pure del nuovo sistema elettorale
poteva arrogarsi la paternità, sembrava non cogliere, continuando anzi a
“ragionare proporzionale”.
Quattordici anni fa, discutendo con gli
amici cattolici democratici… ecco un altro punto di partenza in questa
ricerca delle radici del Partito democratico. Fu infatti dura, difficile, a
volte aspra, la discussione tra quanti volevano fare risorgere dalle sue
ceneri il partito dei cattolici per conservare un baluardo, una fortezza
che, dopo la caduta del muro di Berlino, per molti di noi, a cominciare da
Nino Andreatta, non aveva più senso.
Ci fu una forte contrapposizione
tra quanti non accettavano di vedere finire l’esperienza della Dc come
catalizzatore di tutto il voto cattolico e quanti consideravano
necessario superare la questione cattolica, ritenendo che la fede
dovesse essere guida morale ed etica, ma non motivo di condizionamento
delle scelte di schieramento politico. E questa contrapposizione fu
particolarmente dolorosa anche perché ci rendevamo conto di quante e
quali conseguenze avrebbe potuto portare in futuro.
O ancora,
quattordici anni fa, i primi incontri e i primi confronti con Reichlin,
D’Alema, Veltroni, Burlando, con la constatazione che, ormai, erano caduti
muri e steccati ideologici, che le differenze di visione erano pochissime,
che si condividevano linee molto simili nella concezione del mondo, del
progresso, del futuro.
E, infine, ultimo possibile incipit di questo diario,
quindici anni fa lavorando con lena e passione al fianco di Mario Segni al
progetto di una nuova Italia, che doveva nascere dal Referendum e dalla
imposizione di nuove regole, a partire dall’introduzione del sistema
elettorale maggioritario e del Presidenzialismo.
Ma nelle maratone,
come si sa, il punto di partenza conta relativamente. Ciò che conta è
arrivare al traguardo e, soprattutto, vincere. E oggi siamo arrivati
all’ultimo chilometro. Siamo arrivati a quel punto della corsa in cui, dopo
avere superato tutte le crisi, dopo avere pensato più volte all’abbandono,
dopo avere pensato di non farcela, si sente rinascere l’energia, ci si sente
improvvisamente freschi e ci si prepara alla volata finale.
Credo che nei
giorni scorsi si siano dati un impulso e una carica al Partito democratico
tali da renderne la nascita ineluttabile anche al di là delle nostre
volontà. E’ per questo che ritengo una discussione di retroguardia
quella sulla collocazione internazionale del Partito democratico. Il
progetto è di tale portata che dobbiamo avere l’ambizione che sia
l’Europa riformista, il mondo riformista a seguirci, non noi a cercare
ospitalità sotto l’ombrello altrui. Anche perché questo dilemma lo hanno
già risolto i leader europei venuti a parlare dalla pedana dei congressi
della Margherita e dei Ds quando hanno semplicemente riconosciuto un fatto
ovvio: che a Strasburgo le forze del centrosinistra possono vincere solo se
stanno insieme e che la soluzione italiana può anche essere la soluzione
europea.
Io inoltre ritengo fondamentale per il successo del Partito
democratico, molto più che il tema della sua collocazione
internazionale, affrontare e consolidare alcuni punti programmatici a
cui guardare come a delle linee guida essenziali.
In primo luogo
dovremo fare nostro il bisogno di Europa che il Paese ha e dovremo sapere
spiegare al Paese l’inevitabilità della scelta europea. E dovremo dimostrare
il nostro convinto europeismo anche nel coltivare una classe dirigente
giovane e che abbia una visione sopranazionale, giovani donne e uomini da
mandare a Strasburgo con le elezioni del 2009 a misurarsi con la politica
delle grandi scelte che il nostro continente è chiamato a compiere. Giovani
che vadano a imparare l’Europa per tornare in Italia a insegnare
l’Europa.
Inoltre, senza evocare ancora una volta “lo spirito delle
primarie”, dobbiamo però trarre da quella esperienza un grande insegnamento,
un segnale che quella domenica di ottobre ci è arrivato chiaro e forte e
che non possiamo perdere: la politica del nuovo secolo è partecipazione
ed ha successo solo in quanto è partecipata.
Dobbiamo quindi inventare nuovi
modi per allargare il coinvolgimento dei cittadini, in una dialettica
dell’inclusione e della condivisione tale da fidelizzare il loro
consenso.
E poi una politica economica forte, assertiva e giusta, che ci
renda meno fragili nel contesto europeo, più competitivi nello scenario
internazionale, più aperti alle regole di mercato, ma che guardi anche a
una più equilibrata distribuzione della ricchezza all’interno del Paese, da
realizzarsi senza sciagurati dibattiti dottrinari, tesi a distrarre dai
problemi reali.
E il governo sta lavorando a tutto questo: all’equità
fiscale, come alle politiche per la famiglia e i giovani, alle
liberalizzazioni, come alle nuove regole di governance dell’economia, alla
politica della casa, per i giovani per la famiglia, con l’obiettivo di
restituire agli italiani, a fine legislatura un paese di nuovo in
equilibrio, che si regga saldo sulle sue gambe. Un Paese con meno
conflitti, anche di interessi. Con una politica estera che lo renda un
nuovo protagonista dell’impegno multilaterale per la pace.
Ecco, è
per questo, perché ritengo che al compimento dei prossimi quattro anni
avremo costruito il Partito democratico e realizzato questi obiettivi di
governo, che venerdì ho annunciato nel corso dei due congressi la mia
intenzione di considerare conclusa la mia missione con la fine della
legislatura. Ho sempre detto di non considerarmi un uomo per tutte le
stagioni, così come ho sempre pensato che il Paese abbia bisogno di dare
spazio a forze giovani che si mettano con entusiasmo e con forza al servizio
del Paese. Io, finita la maratona, conto solo di godermi il piacere di una
bella doccia.