11 Ottobre 2004
Un Paese sempre più stanco
Autore: Edmondo Berselli
Fonte: la Repubblica
È probabile che l´elenco delle auto super-inquinanti faccia la fine dello “shadow toll”, il pedaggio ombra sulle strade statali, o della lista dei cani pericolosi del ministro Sirchia. L´unica certezza è che nonostante gli spergiuri di Silvio Berlusconi, la Finanziaria “né tagli né tasse” è un cumulo di balzelli e di invenzioni contabili. Al punto che risulta difficile comprendere come sia possibile che un governo insediato sull´onda dello slogan “meno tasse per tutti” anneghi in una specie di feudalesimo fiscale fatto di dazi, gabelle, corvée, editti e svendita della manomorta.
L´esito del governo della Casa delle libertà è paradossale fino al grottesco, anche se la dichiarazione di fallimento era stata già sventolata con il “ritiro” di Giulio Tremonti.
Solo un fissato sarebbe riuscito ancora a credere che il nuovo ministro, Domenico Siniscalco, grazie ai miraggi retorici della collegialità sarebbe riuscito a compiere il miracolo: come era stato previsto, Siniscalco ha fatto quello che poteva, combinando la creatività tremontiana con lo sminuzzamento andreottiano, con un risultato finale incantevole per come smentisce il programma di governo.
Il fallimento è così spettacolare che sembra impossibile attribuirlo a ragioni politiche certe. Le categorie classiche (i veti interni alla coalizione, la conflittualità delle culture, l´incompatibilità dei progetti di lungo periodo) sembrano inadeguate a descrivere l´inabissamento politico-economico della Casa delle libertà. Stiamo assistendo addirittura alla vendetta della maggioranza sul suo elettorato, con misure fiscali che colpiscono l´insediamento politico del centrodestra, come succede sempre quando un regime crolla e addossa la colpa ai sudditi.
L´effetto è straordinario, e suggerisce spiegazioni che si situano fra la sociologia e la psicologia collettiva. Un grande studioso, Albert Hirschman, ha provato a suo tempo a descrivere il processo sociale attraverso modelli non politologici e non economici: la lealtà, le passioni, l´intransigenza, la felicità privata e pubblica. Qui da noi, viene voglia di interpretare lo stallo dell´Italia contemporanea chiamando in gioco un´altra categoria: la stanchezza. Il paese, evidentemente, è stanco. È stanca la società italiana, è stanca l´opinione pubblica, è stanca l´opposizione, se è vero che assiste con impotenza al tentativo di sostituire la Costituzione del ´48 con la farragine di un regolamento di condominio. Sono stanchi i cattolici, sintomaticamente divisi, come si è visto alla Settimana sociale di Bologna, fra una base insofferente verso gli sbreghi costituzionali del centrodestra e la gerarchia ruiniana che si sforza di mantenere l´equilibrio diplomatico di potere con la Casa delle libertà. Ed è stanco l´establishment economico del paese, nonostante gli appelli di Luca Cordero di Montezemolo, se è vero che è continuamente percorso da tentazioni e fumisterie neocentriste.
Le ragioni di questa stanchezza risultano chiare se si pensa allo sforzo colossale per uscire dalla crisi dei partiti storici, alla costruzione del sistema dell´alternanza, alle frustrazioni istituzionali. Ma anche fuori dalla politica la società italiana risulta sfibrata. L´apertura al mercato e alla concorrenza sono state vissute dai cittadini come una sequenza di promesse mancate. Le privatizzazioni hanno sostituito ai monopoli pubblici una serie di monopoli privati, con ripercussioni ovvie sulle tariffe. Lo sforzo del risanamento finanziario è stato scialacquato dal governo Berlusconi, e l´adozione dell´euro è stata attuata con un laissez-faire che per un verso esprimeva il velleitario euroscetticismo della coppia Berlusconi-Tremonti, e per l´altro strizzava d´occhio all´elettorato di centrodestra in grado di approfittare del cambio.
In queste condizioni forse diventa più interpretabile lo stallo del centrosinistra. Anche il cammino che ha condotto all´Ulivo è stato uno sforzo micidiale, pieno di fatica: si trattava di mettere insieme culture fino allora antitetiche, di superare una storica e ancora sentita discriminante anticomunista. Il centrosinistra ha resistito alla micidiale vicenda dell´ottobre 1998, quando una crisi politica venne risolta con una manovra trasformista, e alla brutale sconfitta elettorale del 2001; ma lo stillicidio delle polemiche quotidiane, con il piccolissimo cabotaggio delle insofferenze reciproche e degli interessi frazionali, fa riemergere di continuo paranoie identitarie e masochismi dettati dall´appartenenza.
Un intellettuale come Nicola Rossi, parlamentare nei Democratici di sinistra, ha chiesto un salto di generazione, per fare emergere nel centrosinistra un ceto dirigente nuovo. L´intenzione sarà lodevole, ma si dà il caso che la partita si giochi qui e ora. Per fare uscire sé stesso e il paese dalla stanchezza che li avvolge, il centrosinistra avrebbe l´obbligo di lanciare alcuni messaggi immediati. In primo luogo alla propria constituency elettorale, e a quell´elettorato di “working poor” che nel 2001 ha votato Berlusconi nella speranza di qualche briciola dalla tavola dei ricchi. Dire che il programma verrà è deludente. Certo che verrà, ma intanto bisognerebbe dire, subito, ai ceti impoveriti che le loro pensioni e i loro stipendi verranno difesi, che sarà fatto tutto il possibile per restituire potere d´acquisto, che coloro che si sbattono sul mercato del lavoro liberalizzato verranno tutelati con più moderne e più adeguate forme di welfare.
E nello stesso tempo bisognerebbe anche fare capire all´élite economica italiana che dalla stanchezza, dai fantasmi del declino industriale, dal torpore produttivo, si esce eventualmente anche cambiando cavallo. Se il centrodestra ha fallito, si prova il centrosinistra. Altrimenti, l´idea serpeggiante di dare vita a una nuova bambolina centrista, di fabbricare nuovamente il partito del tutti insieme, rappresenterà soltanto l´illusione di curare l´Italia stanca con il tepore domestico. Se davvero il paese ha bisogno di una scossa, non è il caso di assecondarne la propensione al sonno neoconsociativo.