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3 Aprile 2006

Turno di guardia

Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa

Ci sono momenti, durante questa campagna elettorale che è drammatica nella sostanza più ancora che nei toni, in cui si apre come una voragine e dentro la voragine precipita tutto quello che dovrebbe contare: il significato autentico del voto che stiamo per dare, la capacità di esprimere un giudizio complessivo su come siamo stati governati e su come vorremmo esserlo, la sostanza stessa della politica e della democrazia. I manuali e le tradizioni liberali ci dicono una cosa essenziale sul nostro sistema politico, che rischiamo di perder di vista: ridotta all’osso, la democrazia è la facoltà, data al cittadini, di mandare a casa chi ha governato male.

Non crea felicità, perché la felicità è individuale e gli uomini liberi si associano di solito per far fronte a un male o correggere errori, essendo mali ed errori più certificabili del bene. Sono le ideologie o la pubblicità che promettono le fatali rive del sentirsi-bene collettivo. In una campagna elettorale si esaminano naturalmente i candidati oppositori, ma l’attenzione si concentra su coloro che hanno avuto il comando. Hanno fatto leggi benefiche, e compiuto il loro dovere? Hanno tenuto parola? Sono stati onesti i loro deputati? Tutto questo si domanda il cittadino, nella cabina elettorale, quando c’è democrazia e non s’aprono voragini.

Siamo in tanti ad aver dimenticato che questi sono gli interrogativi ed è il motivo per cui la campagna è così stordente, accecante. Se da giorni e giorni siamo sommersi dalla paura di veder tassati dalla sinistra bot, cct, case, successioni, è perché l’essenza della scelta democratica ci sfugge, e una confusione enorme s’è installata nelle teste. Accettiamo che i governanti si presentino come oppositori, eterni ribelli a una sinistra che di fatto ci dominerebbe, e che come oppositori siano dunque esentati dall’obbligo di render conto di tutto quello che hanno fatto nella loro legislatura. E accettiamo che gli oppositori rispondano di disastri di cui non sono responsabili.

Render conto di quel che si è fatto si dice in inglese accountability, che non è solo assumersi responsabilità ma permettere che quest’ultima sia contabilizzata. Quando si vota in democrazia, il governo non può presentarsi alla maniera di Berlusconi, Fini o Casini: come fosse vergine, e per cinque anni non avesse detto né commesso alcunché. I primi ad accettare questa stordente campagna che confonde i ruoli sono gli oppositori. Invece di incalzare il governo su quello che ha fatto, il centrosinistra si sente in dovere di rispondere e giustificarsi sui propri vizi, su proprie ataviche tentazioni. Si è fatto mettere in un angolo su bot e cct – poteva parlare genericamente di sacrifici – e il più delle volte neppure spiega come mai queste o altre privazioni saranno necessarie.

Lo sono perché le finanze sono di nuovo gravemente danneggiate, come certificato da Banca d’Italia. Perché una vera liberalizzazione non c’è stata, perché privatizzato è stato il monopolio dei tabacchi e nient’altro, perché ci sono servizi pubblici non rinunciabili. La destra aveva promesso una rivoluzione liberale: non c’è stata. Il centro sinistra potrebbe andare al fondo della questione, e spiegare perché non c’è stata: perché il governo ha speso energie approvando leggi ad personam, fatte con l’intento di proteggere personaggi condannati o sotto processo per corruzione (anche corruzione di giudici con soldi Fininvest, nel caso Previti) o per collusione con la mafia (Dell’Utri): leggi che la sinistra condannò, e di cui misteriosamente non parla più. Perché il monopolio sulle televisioni private (cui si aggiunge la Rai, controllata da Berlusconi-capo del governo) è stato tutelato da ogni concorrenza (il fallimento della Sette è frutto di congiunte manovre di Berlusconi e Tronchetti Provera).

E ancora: l’Unione poteva ricordare che su 25 deputati condannati per corruzione, 21 sono nella maggioranza. Poteva elencare i ministri che hanno dovuto dimettersi (Ruggiero, Siniscalco), i giornalisti che non hanno potuto restare al proprio posto (De Bortoli al Corriere, Biagi e Santoro alla Rai). Poteva dire che non si vota per un governo che annovera ministri, come Calderoli, che dicono ai giornalisti: «Glielo dico francamente, la legge elettorale l’ho scritta io ma è una porcata. Una porcata fatta volutamente per mettere in difficoltà una destra e una sinistra che devono fare i conti col popolo che vota» (Rimando il lettore alla definizione – filologicamente ineccepibile – che Giovanni Sartori ha dato della parola porcata, Corriere della Sera, 28-3).

Ma soprattutto avrebbe potuto parlare del male che affligge la nostra democrazia: il conflitto d’interessi, lo scandalo di un magnate dell’informazione che governa senza abbandonare le sue tv. Non tutti per la verità sono così inibiti. Non tacciono i libri (l’ultimo è quello di Alexander Stille, Citizen Berlusconi, Garzanti 2006). Non tacciono, all’estero, né i politici né la stampa. L’ultimo numero della Zeit denuncia il conflitto d’interessi e ricorda che Berlusconi non è un Arlecchino ma un politico pericoloso implicato in 14 processi.

Dico che la sinistra avrebbe potuto ma è ovvio che può ancora. Basta abbandonare l’insipienza che l’ha afflitta anche in passato, quando pensò di sorvolare sul conflitto d’interessi nell’illusione di fabbricarsi un avversario azzoppato (questo fu l’inciucio). Basta non farsi imprigionare dalla moda, tutta italiana, di considerar ormai scontata l’anomalia berlusconiana o la partigianeria dei giudici. Una moda che conferma quello che Nanni Moretti ha detto nei giorni scorsi: l’esperienza Berlusconi non finirà, neppure se vincesse la sinistra.

Ha scolpito gli animi, la politica, il pensare. Ci ha resi indifferenti ai dilemmi etici, alla commistione politica-affari, alla menzogna, ben più che nel passato. Ha screditato durevolmente la giustizia, il pluralismo in tv. Ha «abbassato lo standard della moralità», scrive Stille. Ha ricoperto con fitta nebbia parole ormai del tutto vacue come moderatismo, centrismo, liberalismo. La destra si diceva moderata: non ne ha dato prova. Il suo moderatismo è stato estremista, a meno di giudicare moderato un ministro che si vanta d’aver escogitato porcate per rendere ingovernabile un’Italia di centrosinistra. Prodi, a mio modesto parere, non ha bisogno di parlare di felicità: è un terreno sdrucciolevole, abbiamo visto.

Basta che elenchi le leggi ad personam, i ministri che hanno agito o parlato senza serietà, le televisioni che palesemente non hanno informato. Non può lasciarsi intimidire e anestetizzare come si è lasciata intimidire e cloroformizzare gran parte della classe dirigente. Anche noi giornalisti siamo parte di questa classe dirigente: talmente scafata, navigata, che di sensibilità etica e democratica ne possiede ormai poca. Siamo divenuti un ibrido singolare, per metà trepidi per metà strafottenti; quasi ci vergogniamo di menzionare conflitti d’interessi, giustizia, monopolio televisivo. Quasi ci siamo scordati che entrare in politica senza aver personali interessi è una regola base in democrazia, non qualcosa di sinistra o destra.

Soprattutto quando gli interessi berlusconiani concernono l’informazione e giù per li rami telefonia mobile, provider internet, cinema, videonoleggio, assicurazioni sulla vita, fondi comuni, sport, editoria. Fare giornalismo corretto non può ridursi a incalzare prevalentemente la sinistra e non chieder conti alla destra. L’episodio Berlusconi-Annunziata vale la pena meditarlo come lezione. Un governante ha deciso che in caso di domande sgradite s’alza, minaccia, se ne va. È un ricatto cui non converrà cedere con alcun governo, e a esso non ci si sottrarrà dirottando l’impertinenza quasi solo sull’opposizione, o su Prodi che questa prepotenza la rifiuta.

Al duello Prodi-Berlusconi vedremo se l�intimidazione funziona o no, a cominciare dai tempi distribuiti. Infine ci sono i cittadini-elettori. L’inquietudine sul fisco si capisce: l’Unione è stata demente a incuter tanta paura, senza neppure offrire un grande obiettivo nazionale come ai tempi dell’euro. Ma la trappola è in agguato anche per loro, anche per loro si tratta di riscoprire il tribunale elettorale e quel che dice Karl Popper: «La democrazia è il diritto del popolo di giudicare e di far cadere il proprio governo. È il solo strumento noto per mezzo del quale possiamo tentare di proteggerci contro l’abuso del potere politico; essa significa il controllo dei governanti da parte dei governati.

E poiché il potere politico può controllare il potere economico, la democrazia politica è anche il solo mezzo di controllo del potere economico da parte dei governati. Senza controllo democratico, non ci può essere alcuna ragione al mondo per cui qualsiasi governo non debba usare il suo potere per fini molto diversi dalla protezione della libertà dei suoi cittadini» (La società aperta e i suoi nemici, Armando, 1996). Ma un’altra cosa dice Popper, fondamentale: le istituzioni democratiche non possono migliorare se stesse, perché il problema del loro miglioramento riguarda in prima linea noi cittadini.

Contrariamente a quello che ha scritto con malinconica trepidazione Luigi La Spina, venerdì su La Stampa, non credo che siamo condannati a esprimere pregiudizi piuttosto che giudizi, il 9-10 aprile, anche se il rischio è grande. Abbiamo tutti gli elementi per giudicare il governo. Abbiamo la memoria, la capacità di far di conto e il senso comune, se come elettori non trascuriamo il nostro turno di guardia.