20 Marzo 2007
Strategia per restare
Autore: Franco Venturini
Fonte: Corriere della Sera
Ha ragione Fausto Bertinotti quando sottolinea che la liberazione di Daniele Mastrogiacomo è stata resa possibile da una efficace collaborazione tra diplomazia ufficiale e organizzazioni non governative. Nell’ora di un sollievo che unisce tutti gli italiani possiamo essere soddisfatti anche di questo.
Ma al giornalismo come alla politica, si sa, è vietato soffermarsi sui momenti di gioia. Occorre guardare avanti. E guardare avanti, quando si parla di Afghanistan, significa immaginare un percorso che legittimi le speranze di pace non con una autolesionista exit strategy ma con una più ardua e sofisticata staying strategy.
I talebani che hanno sequestrato Daniele Mastrogiacomo volevano la liberazione di alcuni prigionieri e un implicito riconoscimento del loro ruolo di interlocutori. Hanno ottenuto entrambe le cose, facendo leva su una cultura italiana che privilegia sempre la vita umana e che non ci sentiamo davvero di condannare.
Ma se la liberazione del collega di Repubblica non si può prestare a rimpianti quale che ne sia stato il prezzo, il giorno dopo deve essere il giorno della cautela. Il giorno in cui occorre evitare che il successo conseguito si trasformi in segnale di cedimento, creando le condizioni per altri ricatti. Ed è una coincidenza fortunata che proprio oggi D’Alema intervenga in Consiglio di sicurezza, ristabilendo subito il primato della politica su una giusta emotività.
In attesa di verificare quanto dirà il ministro degli Esteri, e dal momento che di conferenze si fa un gran parlare (a proposito, oggi siamo meno sicuri che la sortita di Fassino sul coinvolgimento dei talebani sia stata intempestiva), proviamo intanto noi a immaginare le tappe di una possibile staying strategy.
Primo, ma questo D’Alema non lo dirà, occorre una conferenza per avvicinare le scelte degli alleati occidentali. Tra un grilletto facile che non vince e una volontà di aiuto civile che non funziona, è indispensabile trovare un equilibrio che allarghi, e non restringa come accade oggi, il consenso della popolazione locale.
Secondo, si faccia la conferenza regionale che l’Italia propone, ma tenendo ben presente che la sua posta essenziale è il pieno coinvolgimento del fragile Pakistan in un progetto di pace. Siamo già ai limiti del verosimile, ma ipotizziamo egualmente la terza fase: quella che dovrebbe creare nuove alleanze interne in Afghanistan isolando gli irriducibili vicini ad Al Qaeda (l’11 settembre non può essere cancellato) e favorendo il recupero dei talebani meno intransigenti.
Qui entriamo nel temerario. Da sempre la geografia etnica e politico- economica dell’Afghanistan si presta alla guerra civile o al dominio armato di singoli gruppi, non all’emergere di interlocutori sufficientemente unitari e dunque affidabili. Ma anche una politica temeraria va tentata, possibilmente dietro le quinte. E soltanto in caso di successo potremmo giungere, quarta tappa, alla conferenza di pace.
La festa per il ritorno di Mastrogiacomo deve spingerci a provare. Senza strizzare l’occhio a facili velleitarismi e senza perdere con l’arrendevolezza il nostro già limitato potere contrattuale.