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14 Febbraio 2007

Strategia del porporato

Autore: Stefano Ceccanti
Fonte: l'Unità

La polemica ecclesiastica contro i Dico ha subito
l’accelerazione massima il giorno in cui è stato reso noto il manifesto del
futuro Partito democratico. Non è una mera coincidenza e dobbiamo dirlo
chiaramente, senza ipocrisie: lo abbiamo capito bene, la campagna contro i Dico
non è guidata in molti da un prevalente scopo religioso.

Ma fa parte di
una sorta di «strategia verbale della tensione» contro il Pd, come si spiegherà
tra breve. Parto da una premessa. Ho sempre avuto paura di coloro che dicono di
occuparsi di politica in nome di una fede, come conseguenza diretta e
immeditata.

Ma il credente si impegna in politica certo non prescindendo
dalla fede; più esattamente lo fa a partire dalle motivazioni ulteriori che gli
fornisce la fede, anche alimentata in esperienze comunitarie.

È ovvio
che da queste premesse ad un preciso articolato di legge come quello sui Dico ci
sono tanti passaggi intermedi opinabili che sfociano in giudizi concreti molto
diversi. Questo va detto sia a chi voglia sacralizzare quelle proposte sia a chi
le voglia criticare.

Per quel poco che conta, dal punto di vista
parziale e opinabile di chi come me ha contribuito a scriverli, non si è
trattato di un cedimento a valori di altri, ma di un modo di rispondere a
quell’istanza evangelica che è esposta in particolare nel capitolo 25 del
Vangelo di Matteo, dove il giudizio finale è basato sul dovere di solidarietà,
principio che vale anche per tutti coloro che hanno responsabilità pubbliche e
nei confronti di qualunque uomo, a prescindere dalle valutazioni morali nei
confronti suoi e dei suoi comportamenti.

I principi che il cardinale
Martini aveva in modo puntuale contestualizzato a proposito delle coppie di
fatto in S. Ambrogio il 6 dicembre 2000, segnalando che esse sono riconosciute
dalla Corte costituzionale all’interno della tutela dell’articolo 2 della
Costituzione tra le «formazioni sociali» in cui le persone sviluppano la loro
personalità e che l’autorità pubblica «può adottare un approccio pragmatico e
certo deve testimoniare una sensibilità solidaristica».

So che la gran
parte dei vescovi la pensa diversamente; fin qui solo mons. Bettazzi ha
apprezzato i Dico e vedo che la critica è molto forte. Questo mi dispiace, ma
rientra nei prezzi da pagare per chi si assume le proprie responsabilità che mi
è stata insegnata proprio nell’associazionismo cattolico.

Ci sono però
due aspetti delicati da sottolineare che vanno al di là del dispiacere
personale. Il primo è la futura nota dei vescovi, di cui non conosciamo ancora
il testo, ma che è stata preannunciata con toni preoccupanti.

È evidente
infatti che se i suoi contenuti dovessero contenere anche una sorta di mandato
imperativo ai parlamentari cattolici, i quali sono chiamati ad approvare leggi
che ricadono su tutti, si sarebbe di fronte, come ha notato autorevolmente e
puntualmente Leopoldo Elia, a un inedito livello di tensione tra la Chiesa e lo
Stato, per il fatto che essi sono definiti dall’articolo 7 della nostra
Costituzione «ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani».

Il
secondo è il carattere decisamente anomalo di alcune posizioni sin qui adottate
e di quelle preannunciate rispetto non a i miei convincimenti personali, ma a
quelle che la medesima Chiesa cattolica ha adottato nei casi analoghi più
recenti negli altri ordinamenti.

Faccio solo due esempi. Il cardinale
Ouellet, primate del Canada, in una dettagliata presa di posizione del gennaio
2005 rivolta a tutti i parlamentari, non solo quelli cattolici (si trova
integralmente sul sito http://www.cardinalrating.com/cardinal_72__article_673.htm)
li invitava a «votare in piena libertà, con una coscienza illuminata sulle sfide
e le implicazioni», e criticava i matrimoni gay richiamando positivamente
l’esistenza in varie province della «forma giuridica dell’unione civile che
garantisce alle persone di orientamento omosessuale alcuni benefici sociali e
patrimoniali. Tale quadro giuridico protegge il loro diritto».

Come si
vede non solo ci si richiamava alla coscienza di tutti e non a un vincolo di
mandato per i soli cattolici, ma nel merito, per evitare il matrimonio gay, si
arrivava a sostenere l’accettabilità del riconoscimento dell’unione civile come
tale e non solo dei diritti dei singoli nella convivenza.

Il cardinale
accettava cioè come male minore una soluzione ben più radicale di quella
adottata nei Dico. Esattamente la stessa logica e le stesse conclusioni con cui
il 4 luglio 2005 monsignor Blazquez, presidente della Conferenza episcopale
spagnola, in un discorso ufficiale a Aranjuez chiariva che l’opposizione della
Chiesa alla legge voluta da Zapatero sul matrimonio gay non andava vista solo in
negativo, dato che essa invitava a prendere come esempio «altri Paesi intorno
alla Spagna» che hanno scelto «altre forme di rispetto e di salvaguardia di
possibili diritti degli omosessuali, fiscali, di sicurezza sociale e altri, come
si è fatto in Francia col cosiddetto patto di convivenza».

Questi esempi
chiariscono senza ombra di dubbio che le modalità e i toni dell’attuale
opposizione ai Dico non sono la conseguenza necessaria e immediata della
dottrina interna alla Chiesa cattolica né nei modi né nei contenuti.

Dobbiamo pertanto ricorrere ad altre spiegazioni. Ce ne sarebbero di
interne alla Chiesa, ma non è qui nostro interesse esaminarle. Ce n’è almeno
una, squisitamente politica. Senza ignorare la convergenza di pressoché tutte le
forze politiche dell’Unione, quello che ha dato noia è soprattutto quella tra i
soggetti politici che stanno dando vita al Partito Democratico, sia il senso di
responsabilità dei Ds sui contenuti della legge e in particolar modo sulle
modalità di certificazione, sia l’autonomia politica della Margherita e in
particolare della sua componente più legata alla storia del cattolicesimo
democratico, che la convergenza verso il Pd ha consentito di esprimere in forma
più chiara e più netta.

Fin qui la frammentazione del quadro politico ha
consentito a varie realtà esterne, compreso un certo modo lobbistico di
declinare la presenza della Chiesa, di svilire l’autonomia della politica
ponendo veti sulla base non della coscienza, ma di un’appartenenza.

La
realizzazione di un grande partito a vocazione maggioritaria riduce questi spazi
di interdizione e tende a esaltare la capacità di sintesi che avviene attraverso
i partiti, il rapporto con gli elettori sulla base di un chiaro programma, il
lavoro di ascolto reciproco nelle istituzioni. Infatti, laddove questi partiti
esistono, nessuno osa loro rivolgersi né in termini di metodo né di merito con
toni ultimativi. Questo è in gioco realmente all’ombra dei Dico.