Secondo questo editoriale già entro il termine di questa legislatura i
mercati potrebbero cominciare a scommettere sull´uscita dell´Italia dall´unione
monetaria per il 2015. Per la verità sono gli stessi mercati valutari a negare,
per ora, la funesta profezia del quotidiano economico.
All´indomani delle
elezioni, cinque miliardi di buoni del tesoro italiani a 5 e 10 anni sono stati
assorbiti senza difficoltà dagli investitori, paghi di lucrare un modesto
differenziale di 0,3 punti percentuali rispetto ai “Bund” tedeschi. E una secca
smentita alle ipotesi del Financial Times è venuta dalla stessa Commissione
europea, secondo cui «non è possibile che l´Italia esca dall´euro».
Ma
l´articolo, firmato da Wolfgang Munchau, riecheggia in realtà un precedente
rapporto di due analisti della banca d´affari Goldman Sachs che invitavano a
vendere i titoli italiani per acquistare quelli tedeschi o, come suggerisce
anche il Financial Times, a speculare sui derivati che oggi garantiscono il
debito italiano ad un rating decisamente tranquillizzante.
Insomma, l´allarme
«riflette purtroppo un´opinione diffusa nelle capitali e nei circoli
internazionali più responsabili», come ha subito osservato Giulio Tremonti
dimenticando che, se l´Italia sta messa così male dopo cinque anni di governo
Berlusconi, la responsabilità è prima di tutto del ministro dell´Economia.
In
realtà da una parte l´analisi del quotidiano inglese, per quanto paradossale,
cerca di proporsi come una «self-fulfilling prophecy», cioè una di quelle
profezie che si auto-realizzano proprio perché percepite come tali.
Dall´altra,
pur partendo dall´analisi del caso italiano, rientra nella lunga serie di
punzecchiature che la finanza anglosassone periodicamente riserva al sistema
monetario europeo per saggiarne la tenuta e la credibilità: due fattori ai quali
i commentatori d´Oltremanica e d´Oltreoceano non riescono proprio a rassegnarsi.
Detto questo, sarebbe un errore prendere sottogamba i segnali di allarme e di
inquietudine che arrivano dalla grande finanza internazionale. Essi riflettono
un timore reale, e cioè che la risicata maggioranza di cui Prodi dispone al
Senato impedisca al prossimo governo di varare quelle riforme radicali di cui
notoriamente il Paese ha bisogno per uscire dalla stagnazione economica e
soprattutto per ridarsi un´immagine di credibilità dopo cinque anni di
malgoverno delle destre.
Per chi osserva la situazione italiana dall´estero (ma
non solo), il maggiore motivo di preoccupazione è costituito dalla presenza
nella coalizione di forze di estrema sinistra giudicate incapaci di accettare le
politiche di contenimento salariale e di liberalizzazione dei mercati
indispensabili per recuperare la competitività del sistema economico. Si tratta
di timori ragionevoli anche se, come ha ricordato ieri Vincenzo Visco, proprio
dal ´96 al ´99, con soli sei voti di maggioranza alla Camera e con il fragile
appoggio esterno di Rifondazione comunista, Prodi e Ciampi riuscirono nel
miracolo di risanare i conti pubblici e di portare l´Italia nell´euro.
Ma questo
tipo di analisi, che fatta all´estero ha una sua oggettiva coerenza, si carica
di un corollario velenoso quando viene letta in Italia attraverso le lenti del
teatrino politico nostrano: l´idea che una «grande coalizione» che emargini le
forze più radicali della sinistra possa meglio garantire la ripresa economica,
il risanamento delle finanze pubbliche e il ripristino della credibilità
internazionale dell´Italia.
È questo il sillogismo cornuto che devono sfatare
Romano Prodi e i leader del centro sinistra, primi fra tutti Bertinotti e
Diliberto, se vogliono garantirsi il rispetto dei mercati internazionali verso
il prossimo governo e i difficili sforzi che sarà chiamato a fare.
Un rispetto
indispensabile perché, senza l´apertura di credito da parte degli investitori,
l´enorme debito pubblico italiano e il deficit fuori controllo, amara eredità
del governo Berlusconi, possono abbattersi sul prossimo esecutivo seppellendo
sul nascere anche le migliori intenzioni politiche.
Da questo punto di vista, la
strategia della comunicazione e dell´immagine del nuovo governo sarà essenziale
tanto quanto le reali decisioni di politica economica. L´Unione ha già avuto
modo di sperimentare dolorosamente sulla propria pelle quanto abbia dovuto
pagare, in termini di voti perduti, alcune scivolate mediatiche degli esponenti
dell´estrema sinistra sul tema delle tasse.
Ebbene, piaccia o no, i mercati
finanziari sono emotivamente anche più instabili e influenzabili degli elettori
che all´ultimo momento hanno fatto mancare il loro sostegno a Prodi. E questa
emotività non sarà certo raffreddata dalla campagna che il governo uscente ha
già lanciato, in Italia ma anche all´estero, per accreditare l´idea che solo una
grande coalizione possa salvare il Paese dai guai che questo stesso governo ha
provocato.
Se durante la campagna elettorale un certo riserbo da parte delle
forze più radicali della coalizione nello sbandierare i propri slogan sarebbe
probabilmente stato vantaggioso, ora che la campagna elettorale è finita questo
riserbo deve diventare una regola e un obbligo di serietà.
La piccola
maggioranza guadagnata ai seggi dà a Prodi il diritto e il dovere di governare.
Ma la riconquista della credibilità internazionale dilapidata da cinque anni di
berlusconismo non può saldarsi, questa volta, con una vittoria
risicata.