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29 Marzo 2004

Soffia il vento del cambiamento

Autore: Andrea Bonanni
Fonte: la Repubblica

L’Europa scopre il gusto del cambiamento. E manda apparentemente in pensione la vecchia massima andreottiana secondo cui «il potere logora chi non ce l´ha». Dopo la Spagna, la Francia. Il clamoroso successo delle sinistre alle elezioni regionali francesi segue a distanza di poche settimane l´inattesa vittoria dei socialisti spagnoli di Zapatero che hanno scalzato il governo Aznar. Ora, per Jacques Chirac, tutto diventa più difficile nel timore che le elezioni europee di giugno confermino la punizione elettorale.

La sinistra ha ragione di rallegrarsi per questi due successi. Ma avrebbe, soprattutto, motivo di riflettere, evitando di cantare vittoria e di invocare una inversione di tendenza rispetto all´onda lunga conservatrice che ha portato le destre al governo in gran parte dei Paesi europei.

Sia nel caso francese sia nel caso spagnolo, infatti, più che una vittoria delle idee e dei programmi socialisti, gli elettori hanno decretato una punizione dei governi in carica. Chirac paga il prezzo delle riforme impopolari affidate al suo primo ministro Jean-Pierre Raffarin. Così come Aznar ha pagato il fatto di aver ignorato la volontà del Paese mandando i soldati in Iraq e di aver cercato di manipolare gli attentati di Al Qaeda attribuendoli all´Eta.

I casi francese e spagnolo non sono isolati, e non sempre la punizione del governo in carica appare chiaramente giustificata. Poche settimane fa, in Grecia, gli elettori hanno mandato a casa i socialisti, che pure avevano portato il Paese nell´Unione monetaria e avviato una storica riconciliazione con la Turchia ma che erano al potere da undici anni. E un po´ in tutta Europa i governi nazionali in carica navigano in cattive acque, a prescindere dal loro orientamento politico.

In Germania i socialdemocratici di Schroeder perdono un´elezione regionale dopo l´altra e vengono regolarmente castigati dai sondaggi. In Polonia il primo ministro socialista è dimissionario e il suo partito virtualmente cancellato dagli indici di popolarità. In Gran Bretagna Tony Blair è in affanno, e si prepara a pagare un prezzo altissimo alle elezioni europee, dove il sistema proporzionale premierà i liberaldemocratici e la loro opposizione all´intervento in Iraq. In Danimarca il premier conservatore, Rasmussen, protagonista di una brillante presidenza dell´Unione europea, è in piena perdita di velocità. Perfino in Italia il governo Berlusconi viene penalizzato dai sondaggi nonostante il monopolio dell´informazione televisiva che non ha riscontri nel mondo Occidentale.

Il risultato paradossale e gattopardesco di questa epidemia di scontentezza che sembra percorrere l´elettorato europeo è che, se i sondaggi verranno rispettati, le elezioni per il Parlamento di Strasburgo a giugno rischiano di cambiare tutto senza che nulla cambi: quel che uno perde in Spagna lo riguadagna in Germania, i voti negati in Polonia vengono riconquistati in Italia, la batosta inglese viene compensata dal successo francese. Alla fine gli attuali equilibri tra i tre grandi partiti, popolare, socialista e liberale, rischiano di essere sostanzialmente riconfermati sia pure magari con proporzioni diverse.

Se dunque è azzardato cogliere un filo politico nella voglia di cambiamento degli elettori europei, è però chiaro che questa è agevolata proprio dal quadro di stabilità garantito dall´esistenza dell´Unione. Che il governo di un Paese vada a destra o a sinistra, il cambiamento che ne deriva è infatti attutito dall´esistenza di un´Europa che produce ormai più del cinquanta per cento delle normative nazionali e che riduce drasticamente i margini di manovra finanziari delle capitali. Le stesse riforme dello stato sociale, che rischiano di costare così care oggi a Chirac e domani a Schroeder, sono in qualche modo imposte dall´esistenza di un mercato unico europeo all´intero del quale la concorrenza tra sistemi-paese si fa sempre più spietata. E i periodici lamenti di Berlusconi contro i vincoli europei, che fortunatamente gli impediscono di svendere la moneta o il bilancio dello Stato per acquisire consensi elettorali, sono la riprova che il vero potere della politica si sta sempre più trasferendo dal piano nazionale a quello comunitario.

E dunque, forse, nonostante le apparenze, Andreotti non aveva poi torto: il sistematico logoramento elettorale dei governi nazionali corrisponde alla loro progressiva perdita di potere reale. Il gap di democrazia che proprio quegli stessi governi nazionali perpetuano rifiutandosi di accettare un potere comunitario sottoposto alla verifica elettorale finisce per ritorcersi contro di loro. La voglia di cambiamento degli elettori continuerà a travolgerli con oscillazioni periodiche fino a che ai cittadini non sarà restituito il diritto di scegliere il proprio governo anche a livello europeo.