10 Giugno 2005
Se le istituzioni scendono in campo
Autore: Andrea Manzella
Fonte: la Repubblica
Dopo che don Luigi Sturzo nel 1919, aveva fondato il partito popolare, fu Papa Benedetto XV ad abolire il non expedit («non conviene, non è opportuno che i cattolici italiani vadano a votare»).
È curioso destino onomastico che quel precetto sia stato re-introdotto per il referendum di domenica e lunedì prossimi, sotto il giovane regno di Papa Benedetto XVI… Ma il Papa esordiente e perfino il presidente della Conferenza episcopale possono invocare, sulla questione, il vincolo all´obbedienza a un precetto più alto, ad un ordinamento che non è raffrontabile ad alcun altro ordinamento territoriale, perché in esso non sono proponibili questioni giuridiche ma solo questioni di coscienza.
Una “esimente” dunque che vale anche per la modernità laica che afferma il valore della coabitazione. E così sia. La cosa si fa invece più complicata quando l´invito a disertare i seggi di voto proviene da autorità costituzionali. E diviene poi spinosa se per l´astensione si dichiarano i presidenti delle due Camere.
Anche qui il passato ci aiuta a comprendere. Due secoli fa, in un giorno del 1877, un presidente della Camera che si chiamava Francesco Crispi, decise che la funzione di garanzia, al di sopra delle parti, del presidente di assemblea dovesse avere un suo visibile segno.
Ordinò perciò che il suo nome fosse cancellato dalla cosiddetta “chiama”, cioè dall´elenco stampato dei parlamentari che serve a tenere il conto delle loro votazioni. «Il presidente di assemblea non vota».
E da allora così fu, per tutti quelli che lo seguirono nell´altissima carica. Questa prassi non significava, non significò mai, che i presidenti di assemblea parlamentare dovessero rinunciare alla politica.
Voleva però dire che la “politica” di cui potevano parlare era una politica di rango istituzionale, in un certo senso “neutrale” rispetto alla politica parlamentare che si svolgeva ogni giorno sotto i loro occhi a Montecitorio, a Palazzo Madama.
Perfino nei congressi del loro partito, quando decidevano di parteciparvi, era a loro riservato uno spazio di riflessione alta. Anche il più incallito dei militanti di base comprendeva che il sodale divenuto presidente, era obbligato a parlare un´altra lingua, perché il suo ruolo istituzionale sovrastava la sua appartenenza partitica.
Certo, ora i tempi sono cambiati. E i presidenti di assemblea sono eletti dalla sola maggioranza parlamentare. Ma lo spirito della condotta a cui devono attenersi è sempre quello.
L´indipendenza dell´arbitro, l´equilibrio del moderatore, la forza della moral suasion. Per queste virtù di stato li si associa al Capo dello Stato in una sorta di triangolo istituzionale di vertice, il summit politico delle garanzie della Repubblica: anche in tempo di maggioritario.
La discesa in campo referendario dei due Presidenti scompiglia questo quadro di equilibrio. E crea incertezze. A nostro rispettoso avviso, ci sono infatti almeno cinque punti su cui la posizione dei due Presidenti può suscitare dubbi.
Il primo punto è che il referendum, quando non è plebiscito, è una procedura democratica, strettamente legata al parlamento e al principio di rappresentanza parlamentare. Esso si pone precisamente come strumento di controllo del corpo elettorale sulle leggi approvate dalle Camere.
Ora, se sono proprio le Camere per bocca dei loro presidenti a far propaganda per mandare a monte il referendum, c´è da chiedersi innanzitutto in base a quale mandato dell´Assemblea ciò avvenga.
E, poi, c´è da constatare la anomalia di organi parlamentari di vertice che cercano di evitare un controllo dovuto, di sottrarre l´attività delle Camere ad una verifica prevista. Rompendo così il delicato equilibrio costituzionale tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa che c´è in Costituzione.
Un equilibrio che, con qualunque risultato del referendum, non taglierebbe certo fuori il parlamento da tanta lacerante – e perdurante – questione. Il secondo punto, è che da dieci anni, dal 1995, nessun referendum ha superato la soglia del numero legale per la sua validità.
Vi è dunque una crisi generale dell´istituto, provocata da un endemico assenteismo. Invitando ad aggiungere astensionismo ad assenteismo l´appello autorevole dei due Presidenti potrebbe avere il risultato di porre nel nulla una procedura costituzionale. In questo modo, si impedirebbe anche quella congiunzione tra opposizione parlamentare e opposizione civica (qui espressa nella forma referendaria) che in regime maggioritario è uno degli scopi normali delle minoranze democratiche.
Il terzo punto è che, secondo l´art. 48 della Costituzione il voto dei cittadini è segreto. I presidenti delle due Camere sanno benissimo che il non andare a votare rompe questa segretezza del comportamento elettorale.
Lo sanno tanto bene che quando i parlamentari votano per l´elezione del Presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali, li fanno entrare in una specie di burka, per cui nessuno può capire se il parlamentare si esime dal voto o vota davvero nelle sole tre forme valide possibili (sì, no o scheda bianca).
Il non voto indicato dai due Presidenti rompe, è il caso di dire, il velo di ignoranza sul voto decisionale dei cittadini. Ognuno può controllare infatti chi vota e chi non vota. Mentre si sa che il diritto di chi non vuole votare, perché non si è fatto una opinione, trova nella scheda bianca la sua piena espressione.
Il terzo punto è che per l´art. 48 della Costituzione il voto è un dovere civico. È possibile dire che poiché nel referendum la Costituzione prevede, per la sua validità, una certa quota di partecipazione elettorale, quel “dovere” non vale Anzi: che è perfettamente lecito l´incitamento a non far raggiungere quella quota, come comportamento politico del tutto coerente alla logica referendaria.
Ognuno vede come questa giustificazione di un salto, dal “dovere” all´attività contraria a quel “dovere”, è di così grande audacia da cadere nel vuoto costituzionale. È noto, invece, che all´Assemblea Costituente l´introduzione del quorum, della soglia minima di partecipazione al voto, fu fatta non per offrire un appiglio all´astensione, ma esattamente per contrastarla.
Cioè per porre un incentivo alla partecipazione elettorale. Non c´è dunque alcun nesso logico che possa far discendere, dalla previsione del quorum, il diritto a non votare e a fare propaganda per l´astensione: a meno che si consacri come legittima la perversione dello scopo di un istituto costituzionale.
È un profilo antipatico – antipatico per la Costituzione – che purtroppo sembra sfuggito ai due Presidenti. Il quarto punto, consequenziale agli altri, è l´affermazione che la predicazione dell´astensione è comportamento fedele alla lettera e allo spirito della Costituzione. I tre punti che si sono visti contraddicono questa affermazione.
Al contrario, tutto fa ritenere che esso sia una forma di “ostruzionismo non legittimo”: perché lo scopo perseguito è quello di impedire il legittimo diritto degli elettori di pronunciarsi nella consultazione referendaria.
Anzi, qualcuno ha ricordato che nel gran mare delle nostre leggi elettorali ce n´è perfino una che punisce con la reclusione chiunque «investito di un pubblico potere» «induca gli elettori all´astensione».
Ma, forse, non è il caso di ricordarlo troppo. Basta annotare che nella nostra prassi costituzionale dopo l´ostruzionismo di minoranza e quello di maggioranza, potrebbe configurarsi ora l´ostruzionismo dei presidenti.
Per di più, in dichiarata intesa tra loro. Il quinto punto è che l´opinione dei due presidenti è stata difesa da oltre cento giuristi di chiara fama. Anche noi abbiamo tenuto in gran conto i diversi pareri scritti, in tempi non sospetti, da Augusto Barbera e Andrea Morrone (nella loro “Repubblica dei referendum” e in altri saggi su “Quaderni Costituzionali”).
Ma attenzione: questa non è una disputa fra giuristi. Se anche tutti i giuristi italiani dessero ragione (o torto) ai due presidenti, questi non potrebbero ugualmente per ruolo, funzione e responsabilità, intervenire con suggerimenti procedurali nella mischia dove si forma il libero convincimento degli elettori.
Certo, non è facile dire se si tratti di questioni di legittimità, di legalità o di costume democratico. Tutto è difficile in questo referendum. È facile solo la nostalgia per quel giorno del 1877.