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1 Marzo 2005

Se la politica prevarica i diritti della magistratura

Autore: Guido Rossi
Fonte: la Repubblica

I PROBLEMI che riguardano la giustizia hanno almeno due diverse implicazioni: una interna che concerne l´organizzazione e l´amministrazione della giustizia e l´altra esterna che si inquadra nella classica tripartizione dei poteri, sulla quale si fonda la democrazia. E l´una e l´altra sono direttamente collegate alla politica. È da questa, infatti, che dipendono le strutture materiali nelle quali si amministra la giustizia e le stesse norme in base alle quali è organizzato l´ordinamento giudiziario. Quando il potere politico non fornisce i mezzi adeguati sia materiali, sia umani, per l´amministrazione della giustizia, questa va in crisi, ma con essa va in crisi una delle funzioni essenziali dello Stato di diritto e della democrazia.

Su questo aspetto non intendo qui soffermarmi. Mi limito peraltro a segnalare che la situazione non è nuova e che la «dolorosa piaga della eccessiva e perciò intollerabile durata dei processi», che di quella crisi è la prima conseguenza, è stata così denunciata dal Procuratore generale della Corte di Cassazione Antonio La Torre. La durata dei processi civili, a cui ora va aggiunta l´inquietante riduzione dei termini di prescrizione nei giudizi penali, hanno posto lo Stato italiano nella «umiliante condizione di sorvegliato speciale». Nel discorso di inaugurazione dell´anno giudiziario, lo stesso Procuratore generale sottolineava le cifre impressionanti delle condanne riportate dall´Italia già nel 1999 da parte degli organi europei di tutela dei diritti dell´uomo di Strasburgo. E denunciava «tutto il peso mortificante come magistrato e come cittadino italiano» per una «vicenda che segna la nostra storia giudiziaria con un marchio non molto dissimile da quello che – fatte le dovute differenze – fu Caporetto per la nostra storia militare». Sono dichiarazioni durissime, soprattutto in un periodo nel quale i diritti dell´uomo sono, come è noto, al centro delle discussioni sui principi fondamentali delle democrazie e sono alla base delle moderne teorie della giustizia.

È questa una gravissima anomalia della nostra vita sociale e politica che incide profondamente sulla stessa impalcatura dello Stato di diritto nel nostro Paese. Anomalia che meriterebbe notizie e indagini approfondite, anche perché altrettanto degradante appare la totale insensibilità e rassegnazione del cittadino italiano di fronte alla disapplicazione dei principi di giustizia: disapplicazione alla quale concorre in modo determinante il potere politico, sia negli atti del legislativo, sia in quelli dell´esecutivo e soprattutto nelle sue ripetute esternazioni.

Ma quel che, in questa sede, a me interessa in modo particolare è tuttavia l´aspetto esterno cioè il rapporto fra giustizia e politica, proiettato nella divisione dei poteri, in base alla quale operano e sopravvivono le democrazie. Il punto di partenza qui non può che essere la citazione dell´esemplare definizione che della divisione dei poteri ne dà Montesquieu (De l´esprit des lois, libro XI, cap. 6): «Non vi è libertà se il potere di giudicare non è separato da quello legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse congiunto al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, perché il giudice sarebbe legislatore. Se fosse congiunto al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo o lo stesso gruppo di notabili o di nobili o del popolo esercitasse i tre poteri: quello di far le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche e quello di giudicare i crimini o le vertenze dei singoli».

Recentemente il tentativo di invasione dell´esecutivo e del legislativo, cioè della politica, è stato particolarmente aggressivo e non solo nel nostro Paese. Le ragioni dell´invasione hanno giustificazioni diverse, ma la conflittualità deve essere ricercata soprattutto in due fenomeni, fra i vari che Alessandro Pizzorno ha brillantemente individuato. Il primo consiste nell´istituzione del controllo di costituzionalità delle leggi da parte di un organo giurisdizionale e il secondo una sorta di «controllo di correttezza politica». A queste due tipologie ne aggiungerei però una terza, che mi pare renda ancor più aspro il conflitto. Essa è dovuta a sua volta a due concomitanti fenomeni. Il primo dipende dal fatto che l´indipendenza e l´imparzialità del potere giudiziario, mentre è comunque costituzionalmente garantita, è anch´essa inserita nell´ordinamento dello Stato in base alle leggi predisposte dalla politica. Il secondo, correlato al primo, è riferibile al sempre maggior tentativo delle maggioranze parlamentari e dei governi, che ne sono l´espressione, di identificarsi direttamente con lo Stato stesso, in una spericolata simulazione del principio di maggioranza che pretende di identificarsi con il principio dell´unanimità: quasi che la maggioranza potesse conculcare a suo piacimento i diritti di tutti, anche quelli indisponibili delle minoranze.

È questa una fase storica che riguarda tutte le democrazie parlamentari e costituzionali e che tende a ridurre, in una sorta di sgangherata coincidenza razionale, la funzione del giudice a quella di «bocca della legge», esclusa da qualsivoglia attività interpretativa e diretta solo a operare, secondo le note tesi di Cesare Beccaria, attraverso sillogismi perfetti. In essi «la premessa maggiore deve essere la legge generale; la minore l´azione conforme, o no, alla legge; la conseguenza la libertà o la pena». Il tutto ovviamente si accompagna a una molteplicità di fonti normative, a un´alluvione legislativa, spesso operata per delega dal legislativo all´esecutivo, sicché il politico tende a invadere ogni sfera, lasciando così al giudice dell´età contemporanea, contrariamente a quel che vorrebbe, l´arduo compito di sviluppare e razionalizzare un sistema normativo caotico e confuso. Ed è qui che si verifica un´ulteriore ragione di scontro.

Questa complessa situazione è appena stata magistralmente descritta da William Rehnquist, Chief Justice della Corte Suprema degli Stati Uniti, nel suo discorso di chiusura dell´anno giudiziario. Il giudice Rehnquist ha precisato che le critiche alle sentenze dei giudici da parte dei politici, benché siano drammaticamente aumentate di recente, non devono e non possono toccare l´indipendenza della magistratura. Questa, infatti, non è costituzionalmente garantita a beneficio dei giudici, bensì solo per attuare la rule of law, cioè il governo della legge, o meglio ancora, lo Stato di diritto. L´attivismo giudiziario è criticato spesso dal Congresso e dal governo e ci sono persino progetti di legge diretti a limitare la giurisdizione delle Corti federali per decidere istanze costituzionali solo per certi tipi di atti governativi. Ma le decisioni della magistratura debbono sempre essere rispettate e nessun giudice può essere rimosso a causa di una sua sentenza. Qui Rehnquist ricorda il conflitto che oppose F.D. Roosevelt con la Suprema Corte, che interpretava come norma fondamentale della Costituzione americana la «libertà di contratto» (freedom of contract), ostile alla legislazione sociale e alla legislazione del New Deal. Il tentativo di Roosevelt di portare da nove a 15 i giudici della Corte Suprema, per inserirvi altri sei che fossero culturalmente più in linea con la politica del presidente, nonostante la enorme maggioranza che aveva a disposizione nei due rami del Parlamento, per l´intervento della stampa e della pubblica opinione, fu stroncato. Speriamo, aggiunge oggi Rehnquist, che il rispetto pubblico che meritano i giudici li salvi dagli attacchi dei politici.

Le cronache italiane recenti hanno reso le parole del giudice Rehnquist ancora più pregnanti ed esemplari, se nel nostro Paese vogliamo mantenere e lottare per i principi dello Stato di diritto. Proprio in tema di diritti umani, quello in particolare al giusto e pronto processo, dove, come ho mostrato sopra, l´Italia non può certo menar vanto all´interno dell´Unione europea, alcune sentenze della magistratura su problemi correlati al terrorismo hanno suscitato reazioni scomposte, delle quali sono ricolme le cronache, persino in autorità ai vertici dello Stato e in ministri del governo. Ebbene, è necessario che anche costoro si rendano conto che non esiste alcun «diritto della politica» a prevaricare o prevalere sull´ordinamento costituzionale e che se è vero quel che ha scritto, riferendosi alla politica, il più conservatore dei giudici della Suprema Corte Usa, Antonin Scalia, che «il primo istinto del potere è quello di mantenere il potere» (1993, in Mc Connel v. FEC), le patologie dei sistemi democratici possono essere curate solo dall´indipendenza dei giudici. E questo, come ho altra volta mostrato, mentre la magistratura americana e quella inglese hanno impietosamente bocciato le impalcature dell´ordinamento anti-terrorismo di quei governi proprio sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali dell´uomo. E nessuna critica istituzionale (né politica) si è levata in quei Paesi.

È bene ricordare che l´indipendenza della magistratura e il controllo di costituzionalità delle leggi sono, da John Locke a Friedrich Hayek, sempre stati ritenuti i due elementi essenziali, in qualsivoglia ordinamento, per garantire la libertà politica. Accanto ai classici del pensiero liberale, un recente studio (2003) di R. La Porta, F. López-de-Silanes, C. Pop-Eleches e A. Shleifer, con un´indagine condotta su 71 Paesi, ha dimostrato che quei due principi, quando correttamente applicati, sono anche associati a una maggiore libertà economica. Uno Stato moderno da essi non può certo prescindere, anche perché è proprio l´indipendenza della magistratura che riesce a rompere quell´ambiguo rapporto tra politica e affari, che costituisce una delle malattie endemiche più diffuse nelle democrazie. La stessa Tangentopoli non sarebbe, a parer mio, emersa, né perseguita, se la magistratura italiana non avesse goduto del privilegio dell´indipendenza.

È allora necessario che la pubblica opinione sia sempre più vigile contro i tentativi di delegittimare il potere giudiziario, perché si esprime in senso diverso rispetto alle opinioni della maggioranza politica, di qualunque parte essa sia, o a quello che con arrogante menzogna si suole chiamare il «sentire comune», che callidamente viene attribuito al vero o presunto sentire non di tutti, bensì della maggioranza o meglio della parte di essa che sta al potere e di questo abusa. Siamo di fronte a un tipico caso in cui le parole perdono il loro significato. L´indipendenza della magistratura è, ben vero, un problema di amministrazione della giustizia, ma è soprattutto un problema di conservazione dello Stato di diritto. Chi minaccia l´indipendenza della magistratura, minaccia la democrazia. Di fronte a questa situazione l´opinione pubblica non può rimanere inerte.

(Testo dell´intervento che sarà pronunciato oggi all´incontro di studio della Fondazione Roberto Franceschi “I tempi della giustizia-politica ed organizzazione”, nell´aula magna dell´Università Bocconi di Milano)