Ogni legge votata dalla Cdl nelle materie penali aveva fini molto
particolari: è quindi presumibile che ne abbia anche la proposta 13 gennaio
2004, firmata da un patrono dell´uomo d´Arcore, dove il cinismo negromantico
tocca punte mai viste, che io sappia; e qualcosa so della storia giudiziaria.
L´estate scorsa esce dal grembo dov´era incubata: Montecitorio la vota sine
strepitu; domani voteranno gli yes men a Palazzo Madama, compatti come suol
essere la Destra in casi simili; e la diavoleria diventa legge.Da venti secoli
esiste l´appello: «revisio prioris instantiae», lo chiamavano i dottori, ossia
un rifacimento del giudizio, i cui temi capitali sono due; N ha commesso il
fatto attribuitogli dall´accusa?; e nell´ipotesi affermativa, come valutarlo in
chiave penale? L´appello romano era un «gravame», nome tecnico: il soccombente
ha diritto al secondo giudizio; e l´affronta ex novo. Discendono dal ceppo
germanico, invece, le domande con cui una parte chiede l´annullamento della
decisione asserendola affetta dal tal vizio. Due modelli. Coniugati, generano le
moderne impugnazioni. L´appello differisce poco dall´antico gravame: se glielo
chiedono e ritiene utile un secondo lavoro istruttorio, il giudice vi provvede
(ascolta nuovi testimoni o richiama i già escussi, nomina periti, inscena
ricognizioni, dispone esperimenti, ecc.); indi conferma o riforma; nel secondo
caso proscioglie o condanna. In parole povere, un bis del primo grado.
La Cassazione, invece, lavora sui motivi addotti dal ricorrente, limitati
al quadro legale dei «vitia in procedendo» o «errores in iudicando»: ad esempio,
l´appello era inammissibile o ricorrono delle nullità; la norma penale
correttamente applicabile non è A ma B. La Corte decide sulle carte, non vede
l´imputato né acquisisce prove. Non che sia puro giudice del diritto: più o meno
scopertamente interloquisce anche sul fatto ma vigono limiti insuperabili; a
parte l´esclusione d´ogni supplemento istruttorio, la forma del giudizio vieta
approcci diretti alle prove già acquisite. Non avviene mai che, letti i verbali
dei testimoni, dica: «il tale merita fede, lo sento; quell´altro, no». Ecco cosa
significa «libero convincimento». Diversa la res iudicanda, rispetto
all´appello, diversi gli epiloghi: la Corte respinge il ricorso o annulla la
sentenza, tout court, e il processo finisce lì qualora sia superfluo un séguito;
o rinvia gli atti nella sede da cui venivano. Non emette mai condanne
(proscioglimenti impliciti sì, mediante annullamento senza rinvio).
L´appello, ripetiamolo, ha venti secoli. Cos´escogitano gl´innovatori? Lo
storpiano abolendone metà. Nelle fonti romane era «remedium iniquitatis»: e sono
due le possibili iniquitates, che l´innocente subisca una condanna o il reo esca
impunito; l´attuale art. 593 c. p. p., c. 1, ripara entrambe; condanne e
proscioglimenti sono appellabili dall´imputato e dal pubblico ministero. Ovvio,
finché la parola «contraddittorio» abbia senso. Il processo serve a stabilire se
un reato esista e come punirlo. Comunque finisca, qualcuno perde, a meno che
fossero concordi (caso raro): soccombe il condannato o chi l´accusa, quando se
lo veda assolto; appellando giocano una seconda chance. Martedì 20 dicembre i
senatori d´osservanza berlusconiana aboliranno l´appello contro i
proscioglimenti e siccome dalle loro parti non vigono tabù d´etica, gusto o
logica, qualche spiritoso domanderà che male ci sia: se la sentenza proscioglie,
nessuno dei due può appellare; le condanne, invece, sono appellabili da
entrambi. Perfetta simmetria, no? Se ne accorgono anche gli scimuniti: l´assolto
non sa che farsi dell´appello; l´accusatore soccombente perde l´unica arma. Che
assurdo sia, lo vediamo nel caso della condanna, appellabile hinc inde.
Supponiamo che il pubblico ministero avesse chiesto la pena x e la sentenza
infligga x meno qualcosa; l´ipotetica ingiustizia, magari lievissima, è
rimediabile con l´appello, la macroscopica (imputato assolto), no.
Poco male, obiettano gl´impudenti, ricorra in Cassazione. Chi abbia letto
sin qui capisce dove stia l´imbroglio. Causidici e legulei non hanno mai goduto
buona fama: cattivi cristiani, li chiamava Lutero; ma nascondevano le
turpitudini sotto maschere retoriche. Nell´epoca della volgarità al potere cade
la maschera. Supponiamo che N sia imputato d´un grave delitto: gli pesano
addosso argomenti induttivi da fiaccare i tori; gl´indizi lo inchiodano; e due
testimoni servizievoli forniscono un alibi; sia stupido, suggestionabile o
corrotto, come talvolta capita, stando alle cronache, il giudice li crede; o
finge d´averli creduti; e lo racconta soffiando tante frasi fiorite. Il pubblico
ministero schiuma: i due sono falsi come Giuda; bastava vederli nell´escussione
incrociata; occhiate oblique, maniere untuose, discorso artefatto. Oggi lo
scempio è rimediabile: nel dibattimento d´appello, giudici meno intronati o
corrivi vedono i testimoni, li ascoltano, pesano le parole, ripuliscono la scena
istruttoria, condannano l´imputato. Nel nuovo sistema sarà impossibile: la Corte
non assume prove, giudica sulle carte; l´unico spiraglio sarebbe un difetto
della motivazione (l´art. 606, c. 1, lett. e, riformulato dalle stesse mani, la
presuppone «contraddittoria»), ma chi affattura una decisione non è così idiota
da contraddirsi. Il capolavoro sta nel rendere irreparabili degli errori in
fatto scaricandoli sulla Corte, impotente a rilevarli perché le mancano gli
arnesi: non è giudice d´appello; e se lo diventasse attraverso norme ad hoc
(contemplanti, ad esempio, dibattimenti rinnovati), sarebbe metamorfosi
mostruosa con effetti distruttivi del sistema. La riforma appare due volte folle
quando non vi sia stato il dibattimento: l´udienza preliminare è finita nel non
luogo a procedere; e appare più che mai necessaria una piena cognizione del
materiale istruttorio.
Esiste una «Monstrorum historia» d´Ulisse Aldrovandi, edita postuma
(Bologna, 1642), la cui iconografia sa d´incubo. Quando un teratologo del
diritto compili l´equivalente, vi merita un capitolo illustrato l´insigne ddl
3600/S. Disinvoltura asinina, in primo luogo. Trinciano l´appello, ignorando
storia e sintassi, come se dei portantini ubriachi, afferrato il bisturi,
operassero allegramente in corpore vili nell´anfiteatro. Ma sotto i
farfugliamenti corre il filo d´un piano coerente inteso al dissesto della
giustizia penale. Spirano arie criminofile. Quest´assurda legge esibisce ancora
due sintomi. L´art. 405, c. 1, vieta d´indagare ogniqualvolta la Cassazione,
investita d´un ricorso contro provvedimenti cautelari, abbia escluso i «gravi
indizi»: la Corte non li ha visti; il pubblico ministero quindi non li cerchi
(con tanti saluti all´art. 112 Cost.: «ha l´obbligo d´esercitare l´azione
penale»). L´art. 533, c. 1, ammette condanne solo «se l´imputato risulta
colpevole al di là d´ogni ragionevole dubbio»: americanismo comico, degno d´«Un
americano a Roma», dove Alberto Sordi interpreta l´americanofilo maniaco; ovvio
che i dubbi ragionevoli ostino alla condanna; nell´onorevole lessico
berlusconoide la formula suona come un pugno sul banco; mossa intimidatoria e
invito ad allargare i confini del dubbio, incluse le fantasie stravaganti. I
precedenti dicono quanto poco attecchiscano i ragionamenti seri. Qui ne vale uno
elementare: va in fumo la «parità» dei contraddittori, postulata dall´art. 111
Cost., c. 2, se l´imputato soccombente può appellare e l´avversario no; prediche
inutili; nella Cdl pullulano i dissensi, spesso maligni, ma dove comanda Sua
Maestà, i chierici consorti, piccoli e grossi, votano disciplinatamente. Abbiamo
sotto gli occhi l´esempio scolastico d´una legge da non promulgare, manifesta
essendo l´incostituzionalità.