13 Giugno 2005
Se il Parlamento concede un ruolo civile alla Chiesa
Autore: Stefano Rodotà
Fonte: la Repubblica
PROTETTI dal velo d’ignoranza sul voto referendario, proviamo ad immaginare quale potrebbe o dovrebbe essere la situazione a partire da questa sera, quale che sia l’esito di quel voto. O forse da domani mattina, essendo difficile che nei commenti a caldo, appena conosciuto il risultato, si riesca a mutare di colpo un clima fin troppo avvelenato.
In che modo dovrebbe riprendere la discussione? Dico riprendere, e non continuare. Guai, infatti, se toni e argomenti continuassero ad essere quelli delle ultime settimane, sull’onda del modo aggressivo in cui i difensori della legge hanno impostato le diverse questioni. È vero che il referendum ha confermato d’essere un importante, per certi versi insostituibile, strumento di promozione di consapevolezza pubblica su questioni d’interesse generale.
Ma è vero pure che molte rozzezze della discussione sono pure figlie del modo in cui il Parlamento è arrivato ad approvare la legge sulla procreazione medicalmente assistita, senza approfondimenti adeguati, senza un dialogo con l’opinione pubblica, con una attenzione rivolta più agli argomenti della Chiesa cattolica che agli interessi delle persone, delle donne in primo luogo. Lo testimoniano i molti ripensamenti di parlamentari che pure avevano votato la legge. E’ possibile affrontare la fase prossima evitando di rimanere di nuovo prigionieri di approssimazioni e ideologizzazioni?
Se consideriamo il cammino percorso in paesi come la Gran Bretagna, la Spagna, la Francia quando si è deciso di affrontare anche con strumenti legislativi le questioni della procreazione assistita, ci accorgiamo subito che all’inizio di quel cammino vi sono rapporti affidati a personalità autorevoli che avevano non solo o non tanto la funzione di offrire un contributo ai parlamentari, quanto piuttosto quella di aprire, come in effetti avvenne, una discussione pubblica di cui tener conto nel momento in cui si decideva di passare all’approvazione una legge.
Il rapporto inglese, affidato ad una studiosa di filosofia morale, Mary Warnock, viene ancor oggi letto e utilizzato in tutto il mondo; il Rapporto Palacio è all’origine della legislazione spagnola; e in Francia, dopo un importante contributo del Consiglio di Stato, il Rapporto Braibant, le leggi di bioetica del 1994 si giovarono assai del ricco materiale, anche comparativo, messo a disposizione dal Rapporto Lenoir.
Diversi nelle impostazioni e in molte conclusioni, tutti questi rapporti avevano però un elemento in comune: la consapevolezza di quanto fosse complesso, difficile, contorto persino, il percorso “dall’etica al diritto” (era questo il titolo del rapporto del Consiglio di Stato francese).
Ci si liberava così dall’illusione e dalla pretesa pericolosa di un’etica, qualsiasi etica, che agisse in presa diretta sulla società, usando il diritto come braccio secolare, come inammissibile scorciatoia autoritaria. È vero che il ritmo incalzante delle innovazioni scientifiche e tecnologiche produce sconcerto, difficoltà sociale nel metabolizzarle.
Ma la risposta, quando si decide di ricorrere al diritto, dovrebbe forse essere cercata ricordando una vecchia definizione del diritto come “minimo etico” all’interno di una società. Che non voleva dire indifferenza per principi o valori forti, ma additava il diritto come strumento che non può limitarsi a chiudere autoritativamente un conflitto: deve cercare punti di unione, e su questi costruire la regola, permettendo così la prosecuzione della discussione e la produzione di più forti e condivisi valori comuni.
Questa sobrietà non serve soltanto per salvaguardare la laicità dello Stato, per evitare la nascita di Stati confessionali, di teocrazie, di dittature portatrici di un’indiscutibile ideologia. È la regola della democrazia, che si ritrova nell’elogio del compromesso fatto da Hans Kelsen: “Compromesso significa risoluzione di un conflitto mediante una norma che non è totalmente conforme agli interessi di una parte, né totalmente contraria agli interessi dell’altra. Ed è proprio in virtù di questa tendenza al compromesso che la democrazia è una approssimazione all’ideale dell’autodeterminazione completa”.
Per l’Italia del dopo referendum non si può auspicare che il cammino riprenda da qualche rapporto, perché comunque è urgente riparare i guasti maggiori già prodotti dalla legge n. 40 (e neppure voglio pensare a quali bagarre, lottizzazioni, cencellate e simili si andrebbe incontro nella scelta delle persone alle quali affidare un rapporto del genere). Ma si dovrebbe pretendere il recupero di questo aspetto della democrazia, che significa insieme civiltà del confronto, riscoperta della dimensione propria dell’etica, rinuncia all’uso puramente autoritario del diritto, anzi individuazione dei limiti dello stesso diritto, dunque delle situazioni nelle quali è bene che non entri.
Non è cosa facile. Ma bisogna almeno prendere in parola quanti hanno sostenuto che l’astensione serviva proprio a far sì che la legge, improvvidamente sottoposta a cittadini sprovveduti, potesse tornare nelle mani di illuminati legislatori. Se ciò dovesse avvenire, si potrebbe per un momento (ma solo per un momento) dimenticare il disprezzo che così si esprime, al tempo stesso, nei confronti del cittadino e di un istituto, il referendum, attraverso il quale la Costituzione ha voluto il popolo come “legislatore negativo” (a proposito: dove sono finiti in queste settimane quelli che in ogni momento invocano il popolo come fonte d’ogni potere?).
Si torni in Parlamento, allora. Consapevoli, però del fatto che senza l’iniziativa referendaria gli spiriti critici ed autocritici nei confronti della legge n. 40 sarebbero rimasti silenziosi. Questo risveglio è già un’indicazione politica, che obbliga a guardare, al di là degli stessi quesiti referendari, all’intera legge, perché non si tratta tanto di rimediare a questa o a quella sua imperfezione, ma di cercare almeno di renderla non del tutto incompatibile con l’essenzialità del ruolo femminile in tutto il processo procreativo, con principi come quello d’eguaglianza, con diritti come quello alla salute. Questo vuol dire far cadere i divieti riguardanti la fecondazione eterologa, l’obbligo d’impianto degli embrioni, la diagnosi preimpianto.
La discussione resa possibile dai referendum, infatti, ha mostrato che sono superabili le obiezioni alla fecondazione eterologa riconoscendo eventualmente il diritto alla conoscenza dell’identità del donatore e sicuramente la conservazione delle sue informazioni genetiche; che le linee guida ministeriali hanno solo in parte superato l’assurdo obbligo di farsi impiantare gli embrioni prodotti; che proprio la caduta di quest’obbligo ripropone il tema della diagnosi preimpianto, che potrebbe ad esempio essere introdotta con le cautele previste dalla recentissima legge francese.
Ma le discussioni hanno pure mostrato l’insostenibilità di un divieto di ricerca sulle cellule staminali esteso anche agli embrioni congelati. E hanno fatto nitidamente emergere come siano possibili forme differenziate ed adeguate di tutela delle forme di vita a partire dal concepimento, ponendo così le premesse per abbandonare la secca equiparazione tra concepito e persona: si riaprirebbe così la feconda discussione già avviata sullo statuto dell’embrione e si eviterebbe il rischio di giocare la legge sulla procreazione assistita contro quella sull’aborto.
Ma né il voto referendario, quale che sia, né una possibile ripulitura parlamentare possono far venire meno il controllo di costituzionalità sulla legge. Basta ricordare soltanto che i divieti riguardanti l’accesso alle tecnologie della riproduzione da parte di donne sole o di coppie non sterili con rischio di trasmissione di malattie genetiche appaiono sicuramente in contrasto con il principio di eguaglianza e con il diritto fondamentale alla salute. E già si annunciano ricorsi alla Corte costituzionale, che sarà dunque la sede dove la legge nel suo insieme troverà ulteriori e molteplici occasioni per verificarne proprio la compatibilità con principi di base del nostro sistema.
La vicenda referendaria lascia comunque una più lunga e profonda eredità. Prima in Parlamento, e poi più intensamente nella campagna elettorale, si è manifestato un programma politico di riscrittura dei valori fondativi della convivenza civile che travolge valori costituzionali; li subordina non all’etica, ma alla religione; postula un ruolo civile della Chiesa.
Sarebbe dunque profondamente sbagliato considerare la vicenda referendaria come una parentesi, Nella storia politica italiana si è aperta una nuova fase, che può essere fronteggiata solo se si ha consapevolezza della sua portata. Guai a darne letture riduttive, rinunciando a provvedersi di adeguati strumenti culturali e politici.