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20 Ottobre 2006

Se il governo vuole durare

Autore: Dario Di Vico
Fonte: Corriere della Sera
Per Standard & Poor’s, la più prestigiosa delle due agenzie di rating
che si sono pronunciate ieri (l’altra è Fitch), l’Italia è meno affidabile del
Portogallo ed è nella categoria, la A+, di Malaysia e Botswana.

Unica e relativa
consolazione: siamo sopra la Grecia. Ai mercati la prima finanziaria del governo
Prodi non è piaciuta, l’assenza di interventi strutturali sulla spesa è stata
considerata un grave errore e una prova che gli equilibri di potere nella
maggioranza si sono spostati a favore delle forze più estranee alle esigenze del
risanamento.

I severi giudizi delle agenzie ci dicono a chiare lettere che,
nonostante il governo conti alcune delle personalità italiane più stimate
all’estero, le scelte adottate appaiono in contrasto con le loro biografie.

E il
dispetto è ancora più grande se si guardano i dati dell’economia reale diffusi
ieri: gli ordini (+22,2%) e il fatturato delle imprese (+12%) segnalano
addirittura un boom. «Ora o mai più» si era detto all’inizio di settembre e
invece si è persa l’occasione di sfruttare la ripresa per impostare una vera
politica di risanamento e rilancio della competitività.

E pur riconoscendo che
gran parte delle osservazioni contenute nella replica del ministro Tommaso
Padoa-Schioppa sono sensate, non si può non sottolineare come le agenzie di
rating operino in base a procedure codificate e a una griglia di parametri
oggettivi.

Ma basta un giovedì nero — che si aggiunge a un mercoledì altrettanto scuro
con sondaggi di popolarità estremamente negativi per l’esecutivo — a far dire
che il governo è giunto (con grandissimo anticipo) al capolinea? No, il governo
Prodi non cadrà né tra un giorno, né tra una settimana, né tra un mese e forse
nei panni degli onorevoli Enrico Boselli e Vannino Chiti avremmo fatto a meno di
dettare alle agenzie un’excusatio non petita
(«Se il governo cade si va a votare»). Chi ha a cuore le sorti del Paese
tifa per governi di legislatura e per un itinerario che concentri nei primi
anni, al riparo dal ciclo elettorale, le azioni più incisive di riforma. Invece
abbiamo avuto finora una finanziaria à la carte, con la tassa di successione che un giorno entra e l’altro esce
e con la cifra-record di 254 emendamenti presentati dagli stessi ministri che
pochi giorni prima avevano approvato lo schema di legge di bilancio.
E’ noto come il governo goda di una risicata maggioranza al Senato e alla
Camera abbia prevalso per soli 25 mila voti popolari. In queste condizioni
l’approvazione di una finanziaria può assomigliare a un Vietnam e un premier che
voglia durare cinque anni ha una sola scelta: nascondere nel mazzo l’asso
pigliatutto, dimostrarsi inclusivo, allargare il consenso, muoversi cioè sulla
falsalinea di quanto ha consigliato il presidente della Repubblica.

Finora non è
stato così. Le comunità che hanno rivolto obiezioni — in diversi casi fondate —
sono state immediatamente inserite nella categoria degli evasori. E il tavolo
dei volenterosi, un esperimento politico che avrebbe potuto aiutare l’iter
parlamentare della manovra, è stato ridotto al silenzio.

Romano Prodi in più occasioni ha avvertito gli alleati che se dovesse
andare a casa lo seguirebbero anche loro. Ed è questo il motivo per cui il
governo non cadrà. Ma ci si può accontentare di durare solo in base a questa
motivazione? Non è il caso di coltivare disegni più ambiziosi?

Non tutto è
perduto, ci sono ancora le condizioni per impostare una politica economica
lungimirante, per coinvolgere in un disegno di modernizzazione parti politiche
che non sono conteggiate nel perimetro della maggioranza. Chi include
vince.