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13 Giugno 2006

Se Fassino e Rutelli osano

Autore: Gianfranco Pasquino
Fonte: l'Unità
Il Partito Democratico, se, quando e come ci sarà, dovrà nascere non
soltanto attraverso un accurato assemblaggio di partiti esistenti, ma con una
intelligente partecipazione dei molti gruppi, dei comitati, delle associazioni
che, in un periodo più che decennale, non hanno smesso di sostenere e pungolare
e, qualche volta, persino troppo raramente, criticare il centro-sinistra e i
dirigenti dei partiti.
Da parte mia, ritengo che un Partito Democratico dovrebbe ricercare e
ottenere fin dal momento fondativo un rapporto serio e dialettico anche con i
sindacati.

Infatti, i sindacati sono, in larga misura, l’unica grande
organizzazione di massa rimasta in Italia senza il cui apporto nessuna politica
di liberalizzazione e di sviluppo appare praticabile, anche se, naturalmente, la
sintesi dovrà emergere dall’opera del governo e potrebbe anche essere
conflittuale.

Allora, tutti i contributi di idee e di impegno personale e
politico che vengono dai dirigenti di partito, a cominciare, comprensibilmente,
da Fassino e da Rutelli, possono essere importanti.

Tuttavia, se il Partito Democratico deve risolvere due problemi che sono
quelli certamente all’origine di una disponibilità di base molto più diffusa di
quanto si possa registrare, ovvero: semplificazione dello schieramento politico
e coesione del centro-sinistra (vi aggiungerei maggiore efficacia dell’azione di
governo), un ripensamento sulle modalità di partenza e, con espressione oramai
diffusissima, del percorso, appare assolutamente vitale.
È giusto ed è anche indispensabile che Fassino e Rutelli vi partecipino
attivamente, ma un partito nuovo e importante si crea, a mio modo di vedere,
partendo dal basso, in special modo se si vuole usufruire della leggendaria
spinta del popolo delle primarie.

In alto, i dirigenti dei due partiti
contraenti debbono tenere conto delle loro identità. In basso, l’interazione fra
le culture, sperabilmente tutte riformiste, ma, comunque, da stimolare e da
sfidare, può essere più intensa, più produttiva, più efficace e potrebbe
consentire una migliore rappresentanza del Paese e di uno schieramento che ha
nella diversità un elemento importante di vivacità.

Vedo, purtroppo, che in alcune realtà locali, in particolare, dove i
partiti sono sufficientemente strutturati (questo è spesso il caso dei
Democratici di Sinistra), non soltanto pretendono di guidare il processo, ma
hanno addirittura già stabilito chi dovrebbero essere i partecipanti
autorizzati.

Soprattutto i Ds dovrebbero avere imparato dalle loro esperienze
passate che il rischio di una fusione, peraltro sempre imperfetta, fra
oligarchie di partiti consiste nella rassegnazione di quei settori associativi
che saprebbero svolgere proprio il compito del rinnovamento, e non
necessariamente del defenestramento delle leadership politiche esistenti – in
alcuni casi, peraltro, un obiettivo da non mettere in secondo piano…

Nell’interlocuzione indiretta fra Fassino e Rutelli sembra che più che i
contenuti (se vogliamo, gli ideali e i valori, ma anche le politiche) del
Partito Democratico sui quali, molto opportunamente, Massimo Salvadori ha
richiesto approfondimenti adeguati, il problema sia la velocità d’esecuzione:
accelerare o prendere tempo. Ho l’impressione che già a livello locale sia
emersa una qualche inclinazione, fra le associazioni, all’urgenza.
La giustificazione dell’urgenza deriva anche dalle prime mosse non felici
del governo Prodi: eccessiva e non ottima lottizzazione delle cariche, loquacità
spropositata dei componenti del governo alla ricerca della loro visibilità,
inizio del gioco perverso che definirò «presa di distanze».

Se non si risponde
con una certa sollecitudine alle richieste di urgenza che vengono dalla base si
rischia di disperdere un piccolo capitale iniziale.

Per metterlo a frutto, però,
non basta dettare i tempi, che sarebbe, comunque, utile lasciare alle
organizzazioni locali dei partiti di intesa con le varie associazioni ai
rispettivi livelli, appare altresì opportuno aprire un grande dibattito di idee,
sempre da cominciare a livello locale.

Dei contenuti, in termini di ideali, di valori e soprattutto di politiche,
si discuterà a partire da quei livelli, e preferibilmente non, tranne che nel
gran finale, in una Convenzione nazionale che fnirebbe per sacrificare la
sostanza allo spettacolo.

Il mio contributo iniziale riguarda il punto che, in
questa fase e per i prossimi cinque anni, ritengo essenziale.

Se il Partito
Democratico appare necessario agli occhi di quasi tutti coloro che ne auspicano
la nascita per semplificare lo schieramento politico e per accrescere la
coesione del centro-sinistra, allora è imperativo sentire la voce del primo
ministro Prodi.

Fin dall’inizio deve essere chiarissimo che la leadership del
Partito democratico deve essere la sua.

Il premierato di Prodi diventerà davvero
forte, non grazie a qualche riformetta costituzionale, ma perché il capo del
governo sarà, al tempo stesso, il capo del partito molto più grande della
coalizione.

È questa coincidenza che rende «forti», e quindi meno costretti ad
aumentare la cariche di governo e a contrattare in permanenza per mantenere un
precario consenso nella coalizione, i primi ministri e i cancellieri delle
democrazie parlamentari.

Fermo restando che il processo di costruzione del
Partito democratico deve assolutamente partire dai cento fiori delle province
italiane, vorrei che Prodi tenesse fede al suo invito: «osare e stupire».

Assuma, dunque, rapidamente, l’iniziativa chiamando a raccolta il cosiddetto
popolo delle primarie e tutti coloro che vogliono aggiungervisi affinché il
Partito democratico vada parecchio oltre i confini dei partiti e dei loro non
molto numerosi iscritti. Osi, il primo ministro, e ci stupisca.