Il presidente della
Margherita individua alcuni di questi terreni in cui la «convergenza è
auspicabile»: le basi della politica estera, la politica della sicurezza, la
lotta al terrorismo. E, naturalmente, anche le riforme istituzionali e
costituzionali. Ma solo quando il voto popolare boccerà la devolution.
Onorevole
Rutelli, partiamo dal dato elettorale. Come giudica il risultato della
Margherita?
«La Margherita è l’unico tra i maggiori partiti italiani a
guadagnare seggi in Parlamento. Ai conteggi attuali abbiamo raccolto ben 122
parlamentari. Certo, un punto in più ci stava bene. Ma bisogna considerare che
nel 2001 la Margherita aveva in lista l’Udeur, e quindi bisogna togliere un
punto e mezzo, aveva un forte voto giovanile che questa volta non c’è perché ci
siamo presentati al Senato, e aveva anche un “effetto Rutelli” candidato premier
che tutti giudicarono irripetibile. Comunque anche i rapporti di forza
Ds-Margherita sono perfettamente in linea con quelli che avevamo stabilito prima
delle elezioni sulla base della serie storica dei risultati elettorali. Vede:
quando dico che siamo l’unico tra i partiti maggiori a guadagnare seggi (tranne
Rifondazione, tutti e quattro i principali partiti perdono parlamentari) intendo
dire che possiamo affrontare con serenità il processo che ci attende».
Ma
Fassino dice che la Margherita ha perso molti voti.
«Non ho letto queste
affermazioni di Fassino. Però i dati sono quelli che ho detto. Nessuno anni fa
avrebbe scommesso un centesimo sul fatto che noi ci saremmo consolidati come
partito nazionale, con risultati omogenei in Piemonte e in Sicilia. Mi permetta
di sottolineare che Piero ed io siamo stati eletti sotto il simbolo dell’Ulivo:
dall’impegno comune non si torna indietro».
E il partito democratico vedrà mai
la luce?
«Noi investiamo sul partito democratico con grande determinazione. Io
giovedì, in direzione, farò una serie di proposte molto precise. Ho fiducia che
potremo decidere tutti insieme un cammino condiviso».
Ma non si è capito ancora
se farete i gruppi unici da subito.
«Veniamo da una lunga fase in cui abbiamo
discusso moltissimo degli strumenti e dei contenitori. Questa fase è alle
spalle. Dobbiamo fare dell’Ulivo e del partito democratico la forza capace di
modernizzare il Paese. Non c’è da scherzare: la nascita del primo partito
politico italiano non è un processo da affrontare in maniera superficiale. È una
cosa senza precedenti, di importanza enorme, e va preparata bene, con
partecipazione, apertura, e molte novità nell’organizzazione: non si può ridurre
tutto a pochi slogan».
Insomma, i gruppi unici subito, sì o no?
«Sono certo che
faremo il partito democratico e quindi che ci uniremo anche in Parlamento.
L’obiettivo politico è chiaro: l’esperienza del nuovo governo e la nascita del
partito democratico sono strettamente connessi. Non ci può essere un governo che
cambia il Paese se non c’è un processo politico che lo sorregge, e, viceversa,
non ci possono essere la nascita e il successo del partito democratico se non
c’è un’azione di governo riformista e innovativa».
Ma c’è una data per la
nascita di questo partito?
«Non mi appassiona sapere se la fase preparatoria
durerà sei mesi o un anno. Mi appassiona sapere se questo progetto permetterà
anche a tanti italiani, anche a tanti moderati, di aderirvi. Creare il luogo di
incontro delle grandi culture democratiche italiane è una sfida affascinante. Ma
il compito dei riformisti, dei progressisti e di tanti moderati che si uniranno
con noi sarà concorrere ad agganciare il mondo che corre, perché l’Italia è
ferma. E anche ripiegata in se stessa: dobbiamo far crescere di nuovo la
mobilità sociale verso l’alto».
Questi sono gli obiettivi. Intanto però l’Unione
si divide sulla legge Biagi. Prc e Cgil dicono di cancellarla.
«Per fortuna
abbiamo un programma. E lì c’è scritto che si tratta di modificare alcune figure
previste dalla legge Biagi, non di eliminare la flessibilità nell’accesso al
mondo del lavoro, e di associare ai lavori flessibili necessari nella nostra
società e nella competizione globale gli ammortizzatori sociali e le tutele che
ora non ci sono».
Rutelli lei vuole aprire il partito democratico ai moderati.
Fassino vuole aprirlo alla Rosa nel Pugno. È d’accordo?
«Il partito democratico
è un progetto troppo grande per essere definito in base alle esigenze e ai
problemi di singoli partiti».
Rosa nel Pugno sì o no?
«Certamente va creato un
soggetto aperto e quindi non si deve dire a priori “no” a nessuno ma quello che
è fondamentale è definire gli obiettivi e la qualità della proposta politica.
Non c’è dubbio che un grande partito nazionale in un Paese come il nostro non
può essere né confessionale né anticlericale. Quindi la porta non può che essere
aperta a tutti quelli che accettino un principio di laicità declinata in modo
moderno, e, perciò, pienamente tollerante e rispettosa delle radici profonde
della cultura e della società italiana».
Nell’Unione sembrano esserci due linee
sull’atteggiamento da assumere nei confronti della CdL. Lei è per trattare con
il “nemico” o no?
«Intanto vorrei dire che il fatto che Berlusconi non abbia
ancora fatto una telefonata a Prodi conferma la sua maleducazione
istituzionale».
Perché, lei la fece a Berlusconi nel 2001?
«Sì, immediatamente.
E non va dimenticato che allora Berlusconi aveva respinto ogni faccia a faccia
televisivo, e persino rifiutato il riconoscimento del suo avversario».
Ma oggi
voi che intendete fare?
«Noi non siamo in attesa di nessun “riconoscimento”
della vittoria da parte della minoranza. Dovrà farlo la Cassazione. Poi toccherà
al capo dello Stato chiamare Prodi perché formi il nuovo governo, e vedremo in
che tempi. Poi, per il Quirinale dobbiamo adottare il “metodo Ciampi”: la
maggioranza indica una personalità che possa auspicabilmente raccogliere anche i
consensi delle opposizioni».
E per la presidenza delle Camere?
«È evidente che
ci possono essere convergenze istituzionali per un governo della vita
parlamentare. È utile avere un confronto civile, però si deve assicurare che i
due presidenti, che sono strumenti essenziali del rapporto tra maggioranza
parlamentare e governo collaborino per l’attuazione del programma approvato
dagli elettori. E siano dunque espressione della maggioranza. Tuttavia, senza
ostacolare le esigenze di funzionalità necessarie per l’attuazione del programma
di governo né le prerogative della maggioranza, ci sono una serie di funzioni
che in una corretta dialettica parlamentare possono essere affidate
all’opposizione. Credo che tutti noi dobbiamo sentire la responsabilità di
ricostruire la civiltà del confronto tra maggioranza e opposizione. Ma è
evidente che essendo così divergenti i propositi programmatici una convergenza
tra i due poli in campo economico sarebbe non solo politicamente improponibile,
ma anche velleitaria, inefficace e foriera di confusione. Però debbono restare
alcune aree nelle quali una convergenza è auspicabile. Penso ai pilastri della
politica estera, alla politica della sicurezza interna e alle politiche
antiterrorismo. Penso, e ribadisco quel che ha detto Prodi, alle questioni
costituzionali e istituzionali, anche se è ovvio che questo confronto si potrà
aprire solo dopo la bocciatura della riforma costituzionale e della devolution».
Rutelli, ma lei entrerà al governo?
«Deciderò innanzitutto con Prodi, poi con il
mio partito e con Fassino. Sento la responsabilità di concorrere a rafforzare il
processo del partito democratico, che non può essere sganciato dalla coesione
della maggioranza e dall’azione del governo. Decideremo insieme che cosa sarà
meglio fare: abbiamo la responsabilità di insediare il nuovo governo in tempi
rapidi».
Il «Financial Times» sostiene che con la risicata vittoria di Prodi
l’Italia rischia di uscire dalla zona euro. Qual è la sua opinione?
«Non
possiamo vederci addebitate le responsabilità di questi cinque anni. Ma l’Italia
è irreversibilmente parte dell’economia europea: sappiamo che dovremo lavorare
subito per una robusta ripresa della crescita e della competitività. Solo così
avremo un bilancio in ordine e una migliore distribuzione dei benefici. Dobbiamo
uscire finalmente dalla crescita zero».
Un nuovo, tremendo attentato in Israele
ripropone sia il tema della lotta al terrorismo che quello dei rapporti da
tenere con Hamas.
«Occorre essere intransigenti con il governo di Hamas. Senza
riconoscimento di Israele e sconfessione del terrorismo non c’è un futuro di
pace. Gli israeliani hanno emarginato la destra, Olmert è pronto a importanti
concessioni. Ma la comunità internazionale non può accettare che quel popolo sia
ogni giorno sotto le minacce assurde di Amahdinejad e gli attacchi dei
kamikaze».