È molto più di un “contentino” all´Occidente, è l´inizio di una svolta nel governo della seconda economia del pianeta. Dopo anni di attese, ieri la Cina ha fatto il gesto che le veniva chiesto dall´America e dall´Europa: ha rivalutato la sua moneta, il renminbi o yuan. Da oggi il made in China è un po´ più caro, e i prodotti stranieri (incluso il made in Italy) sono un po´ più convenienti per i consumatori cinesi.
Inizialmente la rivalutazione è solo del 2 ma questa è solo una prima tappa, accompagnata da altri cambiamenti gravidi di conseguenze sul sistema monetario. E´ la conferma che il gigante asiatico, reduce da un quinquennio di crescita vertiginosa (+9,5 del Pil ogni anno), ha fiducia nelle sue capacità di competere sui mercati globali, e applica ormai una strategia da superpotenza per tutelare i propri interessi nel lungo termine.
Il cambiamento è stato annunciato ieri dalla Banca Popolare della Cina e ha diversi aspetti. Quello che avrà più conseguenze è l´abbandono della parità fissa “agganciata” al dollaro americano, che determinava il valore dello yuan dal 1994. Quella parità, ritoccata una sola volta nel 1998, negli ultimi sette anni era inchiodata a 8,27 yuan per un dollaro. Questo ha fatto sì che il deprezzamento del dollaro ha automaticamente trascinato con sé la moneta cinese. Via via che il dollaro scendeva anche il made in China diventava meno caro. Gli effetti sulla competitività sono stati più pesanti per l´Europa. Con l´euro forte le esportazioni italiane, per esempio, si sono viste doppiamente danneggiate sia sui mercati americani che su quelli asiatici. Da ieri tutto ciò che si paga in yuan costa il 2 in più, visto che la parità col dollaro è stata portata a quota 8,11. Ma la rivalutazione si accompagna soprattutto a un cambio nelle regole. Ora lo yuan è agganciato non più al solo dollaro bensì a un “paniere” di monete che include l´euro e lo yen giapponese. Quindi se l´euro dovesse apprezzarsi nuovamente, trascinerebbe in parte anche la moneta cinese. Infine lo yuan acquista flessibilità, può oscillare dello 0,3 in su o in giù. Questa elasticità in futuro è destinata ad aumentare. La banca centrale infatti ha annunciato che «la banda di fluttuazione del cambio verrà mutata per adattarsi alle condizioni dei mercati». La rivoluzione del capitalismo e del mercato, che ha già avuto effetti profondi nel trasformare l´economia e la società cinese, si affaccia per la prima volta nella delicata gestione delle relazioni monetarie con il resto del mondo. La rivalutazione dà anche al governo più manovra sui tassi d´interesse e strumenti nuovi con cui controllare un´economia che rischia il surriscaldamento per eccesso di sviluppo: in un decennio le dimensioni del Pil sono triplicate, l´anno scorso l´afflusso di investimenti esteri in Cina ha superato gli Stati Uniti (61 miliardi di dollari); questo boom sta facendo salire l´inflazione (4) e provoca sintomi di una “bolla” speculativa sul mercato immobiliare.
L´Amministrazione Bush e il Congresso Usa erano stati i più aggressivi nel chiedere la rivalutazione dello yuan. L´America ha subìto in proporzioni eccezionali l´invasione del made in China, ha avuto un deficit commerciale bilaterale di 162 miliardi di dollari nel 2004 (si prevede che sfonderà i 200 miliardi a fine 2005). La Cina ha accumulato 711 miliardi di riserve valutarie in dollari Usa, e questo le dà un potere di influenza sul suo grande rivale strategico: per finanziare il proprio crescente debito pubblico, il governo degli Stati Uniti dipende sempre più dal creditore di Pechino che acquista i suoi buoni del Tesoro. Da anni Washington sostiene che questi squilibri sono stati amplificati proprio dalla politica monetaria, con quell´aggancio yuan-dollaro che ha impedito alla divisa cinese di rivalutarsi e quindi ha regalato un vantaggio artificiale ai prodotti dell´Estremo oriente. Gli americani speravano in una rivalutazione ben più consistente – del 10 o 15 – rispetto a quella varata ieri. Tuttavia hanno voluto cogliere in quel gesto il preannuncio di altri cambiamenti. Il presidente della Federal Reserve Alan Greenspan lo ha definito «un primo passo positivo».
Eppure è illusorio pensare che la rivalutazione dello yuan – quand´anche arrivi un giorno al 10 auspicato dagli americani – ridurrà davvero l´invasione del made in China sui nostri mercati.
Il vantaggio competitivo asiatico è di ben altre dimensioni. I costi di produzione cinesi, a seconda dei settori industriali e dell´intensità di manodopera che usano, variano da un decimo alla metà dei nostri costi. Qualunque rivalutazione dello yuan non può avere l´effetto miracolistico di cancellare un divario di competitività così ampio. Tanto più che la forza di Pechino non è solo nei bassi salari: il miracolo cinese è fatto anche di produttività, elevata qualità dell´istruzione, ricerca scientifica, investimenti in infrastrutture moderne.
L´annuncio di ieri è interessante per ciò che rivela sui calcoli strategici della leadership cinese. I governanti della più grande nazione del mondo hanno preso atto che i loro interessi sono cambiati. La Cina non è più solo “la fabbrica del pianeta”, interessata a massimizzare le proprie esportazioni. Da quest´anno è diventata anche il primo importatore assoluto (superando l´America). Uno yuan più forte consente di pagare meno il petrolio e altre materie prime, che la Cina sta accaparrando in una gara sfrenata con il resto del mondo.
I dirigenti comunisti alternano con disinvoltura il bastone e la carota nei rapporti con l´Occidente e soprattutto con l´altra superpotenza. In preparazione del viaggio che il presidente Hu Jintao farà negli Stati Uniti a settembre, i suoi collaboratori hanno percepito l´aggravarsi del sentimento protezionista e anti-cinese: dopo l´export di prodotti cinesi, c´è l´arrivo in massa di multinazionali che si comprano grandi imprese americane. L´anno scorso Lenovo ha conquistato tutta la divisione personal computer della Ibm. Poi la China National Offshore Oil Corporation (Cnooc) ha scalato la compagnia petrolifera californiana Unocal. La Haier ha lanciato un´Opa su Maytag, marca storica di elettrodomestici come Hoover.
All´inizio gli americani hanno subìto (vedi Ibm), poi la reazione nazionalistica è montata fino alle minacce del Congresso di varare veti contro le multinazionali cinesi. Prudentemente sia la Cnooc sia la Haier sembrano ora disposte a rinunciare. Ma a questi gesti distensivi se ne accompagnano altri di segno ben diverso. Nella stessa settimana in cui il Pentagono pubblica un rapporto esplosivo sulla minaccia militare cinese un generale dell´Esercito ha minacciato il lancio di «centinaia di missili nucleari contro le città americane», se Washington dovesse opporsi a un´invasione cinese di Taiwan.
Da oggi comunque per le autorità di Pechino si apre un´avventura nuova. Per la prima volta devono gestire le fluttuazioni della loro moneta sui mercati, affrontando flussi speculativi internazionali “eccitati” dalla prospettiva di altre future rivalutazioni. E´ un gioco pieno di incognite. Nel 1997 quando scoppiò la crisi finanziaria asiatica la Cina fu lodata dall´America e dal mondo intero per aver tenuto la sua moneta agganciata al dollaro, mentre le altre crollavano come birilli. Ma quello era un altro mondo, e un´altra Cina. Oggi è un pachiderma immenso quello che si tuffa nelle acque della finanza globale, e le onde si faranno sentire a distanza.