Il «coraggio di stupire». È stato lo slogan lanciato da Prodi, durante il conclave laico tra i ministri riuniti a San Martino in Campo. Appena tre giorni dopo averlo esposto in teoria, il Professore ha una buona occasione per tradurlo in pratica. Nella storia italiana non c’è nulla di meno «stupefacente» di una manovra aggiuntiva, varata da un nuovo governo per turare le falle di bilancio ereditate da quello vecchio. Era la prassi, nella Prima Repubblica. Continua ad esserlo anche nella Seconda. Purtroppo, anche Tommaso Padoa-Schioppa non è potuto sfuggire al battesimo di fuoco.
Ce l’ha costretto il fallimento delle politiche economiche del ciclo berlusconiano. Il rapporto finale della Commissione Faini (incrociato con la relazione annuale della Banca d’Italia) è una pietra tombale sulla stagione irresponsabile dei finti emuli di Gordon Brown. e’ vero che il Polo ha mantenuto la promessa con la sua base elettorale, non aumentando la pressione fiscale. Ma sul piano contabile, tra tetti fasulli alla spesa, condoni edilizi e tributari a raffica e finanza creativa, il disastro è compiuto e completo.
Non resta nulla, di questa italica paccottiglia neo-con.L’extra-deficit che il Cavaliere lascia al Professore è pesante: attualmente al 4,1% del Pil, corre pericolosamente verso quota 4,6. Quasi un punto in più rispetto agli obiettivi concordati con l’Unione europea. Il debito pubblico, per il secondo esercizio consecutivo, torna a salire rispetto al prodotto lordo: 106,4% l’anno scorso, addirittura 108,3% quest’anno. Non accadeva dal 1994. In meno di cinque anni è stato distrutto il patrimonio più prezioso e faticosamente accumulato dal governo Amato del ’92 fino alla stagione di Ciampi del ’96/’98: l’avanzo primario, cioè il saldo tra entrate e spese al netto di quelle per gli interessi, era arrivato al 6,6% del Pil nel 1997, mentre ora è ridotto a un miserabile 0,4%.
La spesa pubblica corrente è aumentata in media del 2,4% nel quadriennio 2002/2005, molto più che nel quadriennio precedente. Non male per un governo di thatcheriani alle vongole, che per un’intera legislatura hanno inveito a sproposito contro lo «Stato criminogeno», mentre erogavano generosi aumenti contrattuali pari al doppio dell’inflazione ai dipendenti pubblici. L’ultima Finanziaria di Tremonti, ancorché «non elettorale», si è rivelata poco più che un pannicello caldo. Il concordato fiscale non dà gettito. Le misure di contenimento delle uscite, tra ministeri e trasferimenti agli enti locali, hanno fallito.
In mezzo a tante macerie, la manovra-bis era molto più che un «rischio fatale». Era una certezza ineluttabile. Ma ora che anche il nuovo ministro del Tesoro ha dovuto ammettere che un intervento correttivo sui conti pubblici è «inevitabile», al centrosinistra che ha vinto le elezioni di aprile si richiede qualcosa di più e di diverso, rispetto alla rituale «mini-stangata» di primavera di un qualsiasi governo Andreotti. Non sarà facile. Ma non c’è altra via. La scelta non è tra rigorismo e riformismo. Ma è un’azione congiunta e coerente su entrambe le leve. È dal governo Fanfani dei primi anni ’60, dalla nazionalizzazione dell’energia e dalla Nota Aggiuntiva di Ugo La Malfa, che il centrosinistra si avvita sull’eterna e ormai sterile contesa tra rigoristi e sviluppisti. È ora di voltare pagina.
La manovra straordinaria per il rientro dal deficit deve avere il necessario impatto quantitativo, utile a far rientrare l’Italia nel circolo virtuoso di Eurolandia dopo gli anni delle forzature sul Patto di stabilità, e ad evitare la sanzione di un downgrading sui nostri titoli di Stato da parte delle agenzie di rating. Ma non potrà ruotare solo sulle solite, estemporanee voci di bilancio, dagli anticipi d’imposta ai bolli e i tabacchi. Nell’enorme buco nero dell’evasione fiscale, ulteriormente ingigantito dalla strategia della disattenzione berlusconiana, c’è spazio per reperire risorse immediate. La revisione della disciplina dei rimborsi Iva, per esempio, va in questa direzione. E soprattutto questa «manovrina» dovrà essere accompagnata da misure dotate anche di un grande valore qualitativo, necessario per marcare quel cambio di passo tra la conservazione e la modernizzazione di cui il Paese ha bisogno, e di cui ha parlato diffusamente il governatore di Bankitalia nelle sue ultime «Considerazioni finali».
C’è molto da attingere, volendo, nell’Agenda Draghi. Subito. A bassissimo costo economico, anche se ad alto impatto politico. La liberalizzazione nel terziario, nelle professioni, nei servizi pubblici locali, per esempio, va in questa direzione. Dal commercio ai trasporti, dalle farmacie ai taxi: c’è un grumo di auto-protezione corporativa, nel mercato italiano, che aspetta solo di essere sciolto, e rimesso nel circolo dell’economia collettiva.
A disposizione del cittadino che consuma, non più solo dell’oligopolista che specula. Ma nell’Agenda Draghi c’è anche molto da attingere in vista della Finanziaria d’autunno, che sarà il vero banco di prova per la capacità innovativa del nuovo governo e per la tenuta politica della nuova maggioranza. Gli investimenti per la ricerca, la riduzione del cuneo fiscale, la tutela del lavoratore più che del posto di lavoro, la modifica strutturale delle leggi di spesa. Dall’istruzione agli ammortizzatori sociali, dalla previdenza agli ordinamenti giuridici: c’è un coagulo di incrostazioni conservative, nel bilancio italiano, che aspetta solo di essere aggredito e riallocato nel circuito della competizione globale. A beneficio dei figli che investono sul proprio futuro, non più solo dei padri che difendono il loro passato.
Se non è stato solo lo slogan di un weekend, il «coraggio di stupire» dovrà segnare le prossime scelte del governo. Servirà l’audacia di chi vuole davvero rimettere in moto questo Paese immobile, non il riflesso pavloviano di chi si ostina a non volere «nessun nemico a sinistra». «Il nostro sarà un riformismo radicale», aveva promesso Prodi in campagna elettorale. L’Italia, dopo il Cavaliere, è stanca di promesse. Per il Professore è già tempo di agire.