Dice al Giornale Cesare Salvi, vicepresidente del Senato ed esponente di spicco della sinistra diessina, che il Partito democratico è come il Ponte di Messina: «Se ne parla da 15 anni, ma non si farà mai». E chiede non solo a chi nel suo partito la pensa come lui, ma anche, e soprattutto, a Piero Fassino di smetterla di porgere l’altra guancia e di reagire, finalmente, a un’offensiva politico-mediatica che, sostiene, punta a svellere le radici stesse della Quercia. Non c’è dubbio: Salvi, nei Ds, è un uomo di minoranza, che prende spesso posizioni controcorrente. Ma è certo pure che non è il solo, tra i diessini, a sospettare che Francesco Rutelli e i suoi numerosi amici, così ansiosi di lasciarsi alle spalle il Novecento, le sue ideologie e le sue famiglie politiche, abbiano in mente un Partito democratico, sì, e però alquanto sui generis . Un Margheritone, diciamo così, destinato a soppiantare la sinistra dopo aver utilizzato in suo danno armi convenzionali e non. Compresa, si capisce, quell’arma impropria, forse, ma potenzialmente letale, specie per chi ha nella sua storia anche relativamente recente un’orgogliosa rivendicazione di diversità, che va sotto il nome di questione morale.
A sospettare si fa peccato, ma, in politica, spesso ci si azzecca, recita uno dei più celebri aforismi di Giulio Andreotti.
Può darsi che a questo motto andreottiano si ispiri chi tra i Ds la vede, magari pure con qualche ragione, così, e si predispone, piuttosto che a una battaglia, a una sorta di resistenza passiva, di modo che la prospettiva del Partito democratico resti al centro di convegni, dibattiti e interviste, ci mancherebbe, ma venga pure regolarmente rinviata a un momento migliore, o a data da destinarsi.
Può darsi. Ma, se davvero ci fosse un simile retropensiero, il pericolo non sarebbe solo quello di riservare al soggetto politico prossimo venturo la sorte, direbbe Salvi, del Ponte di Messina. Ancora peggiore sarebbe il rischio di andare avanti, sì, ma per inerzia, portandosi appresso tutti i sospetti (quelli diessini sulla Margherita, ma anche quelli della Margherita sui Ds, si capisce) e rinunciando così in partenza a evocare quella fiducia, quella passione e quelle speranze senza le quali un partito magari nasce, ma nasce morto. Persino se, in Parlamento, i deputati eletti in una lista comune danno vita a un gruppo unico.
Dunque? Dunque alla sinistra e al centrosinistra farebbe bene un bel bagno di santa ingenuità. È vero che alle elezioni mancano ormai pochi mesi, e che questi mesi saranno, con ogni probabilità, orribili. Ma non è vero che è troppo tardi, e che di conseguenza affermazioni come queste di Salvi vanno trattate alla stregua di tentativi di disturbare il manovratore, chiassosi quanti vani. Il vicepresidente del Senato non è davvero il solo, nei Ds, a diffidare, e a voler restare ancorato alla sinistra e al socialismo. Anche se fosse ultraminoritario (ma tutti sanno che non lo è), farebbe benissimo a non nascondere il suo pensiero dietro un dito.
Si è perso colpevolmente, in questi anni, tempo prezioso, per ingenuità, per calcolo, per mediocri realismi di parte: e non soltanto per responsabilità dei Ds.
Non ce n’è molto altro a disposizione. Se c’è da discutere, da litigare, da fare i conti con la storia politica recente, magari da contarsi, sarebbe il caso di farlo senza infingimenti e senza timore di affrontare apertamente anche le questioni più spinose. Mai un partito è nato senza discussioni, litigi e conte, affidandosi solo ai rapporti di forza dei suoi gruppi dirigenti, alle loro alchimie, ai loro veti incrociati: perché una simile novità assoluta dovrebbe manifestarsi in un’occasione come questa, quando (leggiamo) si tratterebbe addirittura di sciogliere in un unico crogiuolo storie politiche, appartenenze, identità, radicamenti sociali tanto diversi? Urgerebbero risposte, possibilmente chiare, a questa semplicissima domanda. Adesso. Non dopo le elezioni.