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11 Aprile 2005

Quello che è mancato a Berlusconi

Autore: Ernesto Galli della Loggia
Fonte: Corriere della Sera

Credo che si tratti di un vero e proprio record: in oltre quattro anni di governo la destra, pur disponendo di tutte le risorse e gli allettamenti del potere, non è riuscita a portare nelle sue file, sottraendolo a quelle avversarie, un solo sindaco, un solo assessore regionale, un solo sindacalista, un solo deputato.

Fatto ancor più significativo: non un solo rappresentante di rilievo del mondo dell’industria e della finanza, non un solo esponente a qualsiasi titolo della società civile, un artista, un attore, chessò, un sarto o un cuoco di grido, il presidente del Wwf, uno scrittore, un accademico di vaglia, un architetto: nessuno.

E’ riuscita anzi nell’impresa di perderne qualcuno, dei non molti che aveva. Sia chiaro: non sto facendo l’elogio del trasformismo. Voglio sottolineare piuttosto un aspetto tra i più evidenti del fallimento della destra di governo: la sua pressoché totale incapacità di stabilire rapporti positivi con il mondo a lei esterno, di influenzare, di attrarre, in una parola di essere inclusiva.


Un’incapacità che a sua volta molto probabilmente ne rimanda ad un’altra: a quella perfino di rendersi conto dell’esistenza del problema. Da anni, così, la destra sta al governo come dentro un fortino. Pur disponendo dell’esercito numericamente più forte, vive nella condizione dell’assediato.

Non riesce ad organizzare alcuna iniziativa di rilievo, alcuna sortita verso il mondo esterno, verso la società, dalla quale finisce per non ricevere alcuna fiducia innanzitutto perché non mostra di essere capace di dargliene. Sarebbe sbagliato oltre che ingeneroso dare la colpa di tutto ciò al solo Berlusconi.

Anche per Alleanza nazionale e per l’Udc, infatti (della Lega è inutile parlare, dato il suo programmatico delirio «padano- centrico») anche per loro contano solo i propri gregari, i fedelissimi, quelli che sono i «nostri» da sempre.

Basta vedere quanto accade da anni nelle città, nelle province e nelle regioni: chiunque in periferia ricopra un incarico in un partito della destra si sente innanzitutto impegnato a cercare di impedire con tutte le proprie forze che si apra il minimo spiraglio a qualche faccia nuova, che si faccia posto a chi non è già dentro la piccola nomenclatura locale di partito.

In Umbria, tanto per fare un esempio, si è arrivati addirittura alla ereditarietà delle cariche e delle carriere: è stato presentato come candidato alla presidenza della Regione un tal Laffranco solo perché «il padre era un grande amico di Gianfranco Fini» (questa la motivazione più sentita) ed era riuscito da tempo a trasmettere al figlio il proprio ruolo politico. Inutile dire che è stato sconfitto conquistando il record negativo di voti ottenuti da un candidato della Casa delle Libertà da Torino a Reggio Calabria.


In quattro anni di governo la destra non è riuscita a liberarsi nei confronti della società italiana del parrocchialismo più miope e del desiderio del profitto politico più immediato.

Non ha capito che cercare energie fuori dalle proprie file, comporta anche dare la necessaria autonomia, riconoscere la libertà e lo spazio di manovra indispensabili alle persone con cui si intende stabilire un rapporto.

Significa cioè mirare ad avere degli amici, non dei camerieri. E invece, nella Rai come in mille altri Enti pubblici, in mille altri luoghi, Forza Italia, Alleanza nazionale e associati hanno perloppiù mostrato di voler avere soltanto dei camerieri.


Non si fidano di nessun altro: probabilmente perché non si fidano innanzitutto di se stessi. La destra, si direbbe, non è sicura delle proprie buone ragioni e delle proprie capacità di farle valere al di fuori di un rapporto servo-padrone.

Ma essere inclusivi non vuol dire solo essere capaci di aprirsi all’esterno, di cercare apporti fuori delle proprie file; non deve avere di mira solo questo scopo. Essere inclusivi vuol dire soprattutto essere capaci di coinvolgere specie in alcune scelte la stessa opposizione fino al punto, in certa misura, di modellarla, di condizionarla.

Anche qui: non si tratta in alcun modo di dare vita a pratiche consociative o di avere una opposizione più «morbida» grazie a qualche «do ut des» sottobanco. No: il fatto è che chi governa deve intendere l’opportunità — nonché l’interesse politico — di distinguere nelle file dei propri oppositori quelli radicali, portatori di proposte estreme e totalmente contrapposte, e quelli, viceversa, che si ispirano a idee diverse sì ma non del tutto ostili e con i quali, quindi, sono possibili forme di incontro o per lo meno di conflittualità controllata.

Gli strumenti per concretizzare tali forme sono parecchi: dall’accoglimento in Parlamento di emendamenti dell’opposizione alla nomina di personalità bipartisan in alcuni posti di particolare significato, al pubblico riconoscimento del valore di questo o quel leader avversario e magari della ragionevolezza delle sue proposte.

Riuscire a isolare tra gli oppositori un’area di interlocuzione distinguendola da un’area di confronto aspro, accresce di per sé lo status e l’immagine politica di una maggioranza, serve a darle solidità e autorevolezza agli occhi dell’opinione pubblica, alla fine serve a governare meglio.


Tanto più appare necessaria questa capacità inclusiva della maggioranza, tanto più appare necessario questo canale di comunicazione tra maggioranza e opposizione, in un regime come il maggioritario, fisiologicamente tendente a spingere verso il muro contro muro, cancellando qualsiasi spazio di mediazione.

Tanto più poi sarebbe dovuto apparire necessario il suddetto canale alla destra italiana, per ragioni storiche estranea da sempre al potere repubblicano, lontana dai suoi ambienti e dai suoi meccanismi.

La destra non l’ha capito. Non ha capito che era sulla maggioranza soprattutto, cioè su di lei, che ricadeva in tutti questi anni l’obbligo precipuo di creare queste condizioni inclusive e lo spazio di comunicazione- mediazione di cui sopra.

Ha preferito invece attribuirne la mancanza alla responsabilità della sinistra la quale ha mostrato sì di indulgere spesso a una buona dose di radicalismo — è giusto riconoscerlo —ma che non è mai stata quell’accolita di bolscevichi che Berlusconi in particolare ha spessissimo amato dipingere e con la quale sarebbe stato perciò impossibile prima che inutile qualsiasi dialogo.


Alla lunga, così, la destra non ha fatto altro però che darsi la zappa sui piedi. È apparsa timorosa e insieme arrogante compattando lo schieramento avversario invece di tentare di ammansirlo e di dividerlo.

Soprattutto si è mostrata scarsamente capace di guidare il Paese in una maniera che apparisse corrispondente all’interesse generale. È dovere di chi governa, infatti, cercare di non apparire una parte ma sforzarsi bensì di apparire come il tutto, come il rappresentante dell’intera comunità nazionale in quanto capace di tener conto dei vari, anche diversi, punti di vista della stessa.

Berlusconi e i suoi, invece, non si sono finora mostrati per nulla all’altezza di un simile compito, sicché non meraviglia che da quattro anni raccolgano al momento delle consultazioni elettorali quello che hanno seminato: Romano Prodi e l’Unione, che oggi sperano più che mai di prenderne il posto alla testa del governo da qui ad un anno, farebbero bene a imparare la lezione e a farne tesoro.