Non si cancella il passato: su un muro di Auschwitz lessi: « Chi non conosce la storia sarà costretto a riviverla » .
C’è un giorno per ricordare: prima, però, raccontiamo che cosa accadde, di quante infamie sono capaci gli uomini, perché i nostri figli sappiano.
Una volta, tanti anni fa, andai nel ghetto di Varsavia. Gli uccelli e il vento avevano lasciato cadere qualche seme tra le macerie, e da una finestra spuntavano le foglie di un susino. C’era, e credo ci sia ancora, un monumento con nastri, corone e una lapide. Annotava: « Il popolo ebraico ricorda il sangue dei suoi martiri » .
Allora non pensavo che avrei avuto una tenera nipotina che di nome si chiama Rachele, e una notte ho sognato, io che non ricordo mai le avventure notturne, che la tenevo per mano e non la lasciavo mai, e scappavamo nei boschi dove sono stato partigiano. Ho quattro nipoti: per lei, quando vado a certe funzioni della sua fede, metto il cappello, per gli altri lo tolgo.
Anch’io, nel Giorno della Memoria, ho il pensiero e il rimpianto per un bambino polacco, un cappelluccio di pezza in testa ( così, in una fotografia ingiallita), un sorriso mite, quasi rassegnato.
Della sua famiglia non è rimasto nessuno, solo io un vecchio italiano se lo porta dentro, anche se di lui conosce solo le pagine del suo diario e quello che gli raccontarono quando andò a cercare di narrare la sua breve vita.
Si chiamava David Rubinowicz, e la sua maestra, la grassa e dolce signora Florentyna Krogolec, mi disse: « David, se voleva, poteva salvarsi. Era biondo come un tedesco » .
Morì soltanto perché il suo nome era David. Aveva dodici anni, era figlio di un lattaio, scomparve nell’autunno del 1942: un treno partì dalla stazione di Suchedniowo, forse si fermò a Belsen o a Dachau o a Auschwitz o a Buchenwald. C’erano quasi duecento stazioni di transito prima di arrivare a Dio.
Di lui sono rimasti una pagella, alcuni quaderni, la fotografia di una gita scolastica: il volto di David, nell’immagine un po’ confusa, si perde tra quegli altri bambini di campagna che portano la borsa di tela legata con le cinghie alla schiena.
Andai a cercare il ricordo del piccolo polacco anche sulle colline del suo villaggio e nel bosco dove trovò rifugio durante un rastrellamento e là vide la volpe che gli faceva paura. Ho visto la vecchia scuola dove aveva imparato a leggere, sono entrato nella soffitta dove si nascondeva, ho incontrato il compagno di banco: aveva la faccia segnata e i capelli grigi. Di tutti i Rubinowicz era rimasta solo una cugina, fuggita poi in Israele.
Per due anni, ogni giorno, egli ha annotato i suoi « strani pensieri » e le vicende di quel paese sotto l’occupazione tedesca.
David non è Anna Frank, è un contadino, forse non ha mai visto un cinematografo o ascoltato un pianoforte. Il giorno che uccidono una ragazza « che era un fiore » è sgomento.
« Ormai — scrive — verrà la fine del mondo » . Va a cercare nella severità della Bibbia una qualche ragione: « La colpa è tutta di Abramo » .
L’ultima data del diario è il primo giugno 1942; la pagina comincia con questa frase: « Giorno di felicità » . Felicità è una parola troppo difficile per David. Poi arrivano « le guardie » . È il 21 settembre e di David Rubinowicz si perdono le tracce.