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12 Ottobre 2005

Proporzionale, le parti rovesciate

Autore: Massimo Franco
Fonte: Corriere della Sera

Non è chiaro se si stia tornando alla Prima Repubblica, o approdando alla Terza. L’unica certezza è la voglia prepotente di archiviare il meccanismo maggioritario che ha regolato la Seconda.

Un sistema nato nel 1993 dalle urne referendarie; e, se riesce il colpo di mano parlamentare di Silvio Berlusconi, seppellito a pochi mesi dall’annullamento di un referendum che ha segnato la crisi di questo strumento di democrazia diretta. Dalle votazioni di ieri alla Camera, si intuisce che la maggioranza di centrodestra ha il controllo dei propri deputati. Lo spauracchio dei franchi tiratori si è rivelato un’illusione dell’opposizione, anche se l’eventualità di un incidente non va esclusa.


La Lega fa capire che, seppure sarà approvata, la legge dovrà passare all’esame del Senato; e subordina il proprio assenso al «sì» degli alleati al federalismo. Ma è improbabile che venga bocciato a Palazzo Madama, a scrutinio palese, un provvedimento che uscisse indenne da decine di voti segreti a Montecitorio.

L’approvazione, però, non sarebbe il segno di una maggioranza in salute o in ripresa. Semmai, confermerebbe un esercito berlusconiano in ritirata strategica; e disposto a tutto per fare terra bruciata davanti alla marcia poco trionfale, eppure in apparenza ineluttabile, del centrosinistra. Romano Prodi vuole governare cinque anni; ma sa che sarebbe difficile.


Lo sarebbe per chiunque, se passerà una legge che si preannuncia impermeabile a qualsiasi promessa di stabilità. Assolutizzare le doti del maggioritario, forse, è esagerato: in fondo, dal 1994 si sono succeduti sei governi, «bis» esclusi; e soprattutto, nella Cdl e nell’Unione un «partito del proporzionale» è sempre rimasto in attesa del momento propizio.

Ma per il modo unilaterale con il quale è stata decisa, e per la strategia delle «mani libere» che prefigura, la riforma proietterà un’ombra di furbizia deteriore. Non sarà il «golpe elettorale» evocato da Le Monde. Tuttavia, è un cambio in corsa fatto con grande istinto di sopravvivenza, e altrettanto spregio delle ragioni altrui.


Le tentazioni «aventiniane» dell’Unione, che minaccia di dimettersi dalle cariche istituzionali in Parlamento, sono segni di protesta impotente. Dietro, si scorge la volontà di drammatizzare il blitz berlusconiano; di spiegare «agli italiani che cos’è in gioco», nelle parole di Prodi. Rimane da capire se l’opinione pubblica si senta davvero coinvolta.

Il sospetto è che molti osservino questa rissa molto da lontano. Allo sdegno e alle aspettative di minoranze politicizzate promettono di contrapporsi il fastidio o, peggio, l’estraneità a un sistema di partiti che gareggiano in virtuosismi a gamba tesa; e gettano le premesse di altri sgambetti e nuove rese dei conti.


Il vero timore dell’opposizione è proprio questo: l’archiviazione beffarda del maggioritario in mezzo a un’indifferenza, se non generale, diffusa. Berlusconi che ieri si appisola durante il dibattito parlamentare dà anche fisicamente l’impressione di una vicenda che non entusiasma neppure chi la vive; e fa aleggiare un ultimo punto di domanda.

Riguarda una classe dirigente nata col maggioritario; plasmata mentalmente dagli scontri fra schieramenti, per quanto eterogenei; e abituata a ragionare in termini di leadership «verticale». L’incognita è se questa nomenklatura riuscirà a sopravvivere alla fine non della legge ma della «mentalità» del maggioritario.


E’ vero che da tempo i partiti hanno ripreso vigore e influenza. Ma se la riforma sarà approvata — cosa probabile, non certa — si potrebbe assistere a un «darwinismo» alla rovescia rispetto agli anni 90. Per paradosso, «vecchi» apparirebbero i figli del maggioritario; e «nuovi» gli eredi del proporzionale.

L’incognita riguarda sia l’attuale presidente del Consiglio, sia quello futuro. Ma Berlusconi sembra ritenere il problema secondario: almeno per sé. In fondo un partito, per quanto declinante, lui ce l’ha; Prodi no. E il suo calcolo non è di governare al meglio dal 2006. Per lui, l’importante è che il centrosinistra magari vinca, ma diventi ostaggio di una maggioranza-colabrodo.