Sotto i portici di Bologna è tornata l’afa, alle tre del pomeriggio del 30 agosto non c’è anima in giro e l’unico passante, Romano Prodi, si rifugia nel suo nuovo ufficio in via Santo Stefano 140. Qui, in un piccolo studio dalle pareti disadorne, il Professore compulsa il monitor con le notizie di agenzia e si chiede con sulfurea malizia: «Io mica l’ho capita quella battuta di Berlusconi sul sacrificio…».
Chissà, forse cerca di tener vivo il messaggio per cui lui resta il portavoce dell’anti-politica? E Prodi: «Mica ce l’ha ordinato il medico di fare politica. E comunque, se un politico non affronta con gioia la fatica che politico è?».
Eppure, dopo averci rimuginato per due mesi, dopo aver soppesato pro e contro, anche Romano Prodi ha deciso di vellicare – sia pure «senza demagogia», come sostiene lui – quel disagio popolare verso la politica all’italiana.
E dice: «Da noi la politica nel suo complesso costa più che altrove. Io non sono un cultore dei sondaggio, ma quando constato il grado di sfiducia degli italiani verso i partiti, sono obbligato a riflettere. E penso che affrontare la questione dei costi sia importante se si vuole riconciliare la politica col Paese.
Va fatta un’analisi trasparente, come la facciamo per le imprese e per gli apparati amministrativi, in modo da raggiungere un obiettivo: ridurre gradualmente questi costi. E su questo tema lanciare un messaggio forte a Paese».
Un tema del genere piò sparigliare la regola per la quale gli schieramenti si confrontano soltanto sulle ricette di politica economica e sociale: perchè ha deciso di far irrompere una questione così “estranea” e così ostica ai partiti?
«Perché da tempo, andando in giro tra la gente, mi sento porre mille casi diversi. Mi si chiedono chiarimenti, giustificazioni e ho capito che per gli italiani questo tema è non solo un diritto, ma anche una priorità forte. Oramai pesa il confronto con gli altri Paese europei e in Italia è difficile mantenere regole anomale. E d’altra parte se chiediamo uno sforzo comune per la ripresa del Paese, noi per primi dobbiamo dare il buon esempio».
Ma affrontando queste questioni non c’è il rischio di assecondare l’eterno qualunquismo di chi pensa: «Sono tutti uguali»?
«Sia chiaro: i partiti sono la struttura portante della nostra democrazia e, dunque dobbiamo guardarci dal fare accuse generiche, esaminando il problema complessivamente e vedendo come possiamo mettere a punto una dottrina coerente e adeguate contromisure. Che non riguardino più soltanto parlamentari o assessori, ma le spese per tutte le istituzioni rappresentative».
Passando dalla denuncia alla proposta?
«Io penso che vada ridotto – ripeto gradualmente e nel corso degli anni – il costo delle indennità degli eletti, le spese e i costi delle campagne elettorali e anche il costo per il mantenimento delle istituzioni e dei partiti. Quando al parlamento europeo si è parlato di armonizzazione salariale tra gli europarlamentari, dalle tabelle risultò che gli italiani sarebbero stati i più “penalizzati” da una riforma».
In Italia non si vota troppo spesso moltiplicando le spese?
«È proprio così e per questo motivo io propongo una riforma del calendario elettorale che porti a ridurre a due le tornate elettorali nel corso di una legislatura. E dovranno essere posti limiti di spesa. Una riforma da fare ad inizio di legislatura».
Lei mette in discussione il finanziamento pubblico?
«Su questo bisogna intendersi bene. Io non metto in discussione i rimborsi pubblici e so bene che una buona democrazia costa. Ma chiedo trasparenza e controllo sulle spese. Anche perché il confronto con gli altri Paesi europei mette in rilievo come i costi della politica da noi siano assai più elevati».
È davvero un’impresa capire a quanto ammonta il finanziamento pubblico, ma a fine legislatura i soldi statali trasferiti nelle casse dei partiti dovrebbero corrispondere a oltre 1000 miliardi di vecchie lire. Troppi? Non le pare singolare che non esistano cifre chiare e sufficienti?
«Alla fine i soldi per i partiti dovrebbero essere di più. È vero che negli ultimi 5 anni i partiti hanno ricevuto circa 450 milioni di euro, ma a regime si arriverà ad una cifra quasi doppia dopo gli aumenti legiferati nel 1999 e nel 2002. La prima misura da prendere è rendere pubblico e trasparente tutto questo. Dobbiamo spendere bene ogni euro e da conto di ogni euro speso».
Nella relazione della Corte dei Conti si denuncia il gonfiamento “pletorico” degli staff dei ministeri, in un’escalation di consulenze e rapporti a tempo che investe Regioni, Province, Comuni: occorre sforbiciare?
«Certo, ma quello della Pubblica amministrazione è un altro capitolo. Il problema più importante non è tanto quello della riduzione dei costi, che pure esiste, ma piuttosto l’efficienza della macchina amministrativa. In questa prospettiva alcuni capito di spesa andranno tagliati, ma altri potranno persino essere aumentati».
La progressiva “pubblicizzazione” dei partiti fa sì che oggi in Italia viva di politica una quantità crescente di persone, qualcuno ne calcola quasi 300mila. Troppe?
«Il numero di persone che in Italia vive di politica è più elevato che altrove. Questo si spiega con il forte decentramento e sotto questo aspetto è paradossale la situazione dei consigli di quartiere o circoscrizionali. In alcune città è un servizio gratuito, in altre ci sono retribuzioni da più di mille euro al mese. Manca una giustizia distributiva che resta il collante di ogni sistema democratico».
Con queste proposte non crede possano inquietarsi i partiti dell’Unione?
Se impostiamo questo discorso in modo serio, sono sicuro che ci sia una forte comprensione da parte di tutti i partiti dell’Unione. Le radici della legittimità non si alimentano soltanto di fatti giuridici, ma di un rapporto col Paese reale».
Presidente Prodi, che ne pensa dell’autodifesa di Fazio?
«Un’autodifesa formale che non ha toccato i problemi più delicati, che erano sostanziali tanto è vero che la stessa credibilità internazionale del Paese è stata messa in discussione. Quell’autodifesa senza risposte mi spinge a chiedere che il Senato discuta al più presto nuove regole in questo campo. E voglio sottolineare che l’Unione si sia identificata nelle mie recenti proposte di riforma complessiva del settore».
Berlusconi torna ad accusarla per il tasso di cambio con cui siamo entrati nell’euro…
«Polemica che, forse, è frutto di incapacità di analisi economica. Con uno sforzo incredibile siamo entrati a 990 lire per marco e tutti, a cominciare dall’allora onorevole Tremonti, accolsero questo rapporto come un risultato straordinario. Ricordo la notte prima della decisione una lunga telefonata con Kohl, la mia richiesta di un cambio a mille lire (anche se molti in Italia ritenevano che il massimo ottenibile fosse 950) e lui mi disse: “A mille non è possibile, ma mi impegno a darvi una mano per chiudere a 990”».
Se l’Unione vince le elezioni, lei chiamerà Mario Monti a fare il ministro?
«Abbiamo sempre lavorato bene assieme. Ma prima si fa il programma e posi si fa il governo. Questo è un modo serio di ragionare e sono sicuro che anche Monti ne sia profondamente convinto».
Se un eventuale governo dell’Unione non ce la facesse, a metà legislatura non crede che possa prendere quota l’ipotesi di una “Grande coalizione”?
«Io mi impegno davanti agli elettori per una sola coalizione e per un programma condiviso da realizzare in tutta la legislatura»