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20 Luglio 2005

Prodi: “I politici pensino alle regole, non agli affari”

Autore: Massimo Mucchetti
Fonte: Corriere della Sera

Unipol che lancia l’Opa sulla Bnl e taglia la strada al Banco Bilbao. La
Popolare Italiana, ex Lodi, che fa altrettanto nell’Antonveneta contro
l’olandese Abn Amro. L’immobiliarista Stefano Ricucci che diventa il primo
azionista singolo di Rcs Media Group. Il presidente della Confindustria, Luca di
Montezemolo, parla di manovre oscure. Gli esponenti del centrosinistra si
dividono tra chi, come Francesco Rutelli, nega alle cooperative il diritto di
fare finanza e chi, come Piero Fassino, non vede differenze di dignità
imprenditoriale tra immobiliaristi e industriali e benedice l’iniziativa della
compagnia di assicurazioni delle coop rosse. C’è abbastanza materia per chiedere
a Romano Prodi, leader dell’Unione e candidato alla guida del governo alle
elezioni politiche del 2006, dove stia andando il capitalismo italiano e che
cosa debba fare la classe politica.

Presidente, queste scalate e controscalate di Borsa la
preoccupano?
«Sono normali nel capitalismo, dove gli assetti
proprietari cambiano di frequente: né stupore né preoccupazione se si
rimescolano le gerarchie e i poteri dell’economia. Non deve essere questa la
ragione dello scandalo».

E quale dovrebbe essere la buona ragione?
«Questi eventi
occupano le prime pagine dei giornali internazionali per il messaggio che danno
sulla debolezza delle regole del mercato finanziario italiano: si sono formati
blocchi politici in difesa dei contendenti e i regolatori, a cominciare dalla
Banca d’Italia, hanno in alcuni casi dato l’impressione di essere non arbitri ma
parti in gioco. Non dimentichiamo che in passato il sistema politico italiano è
esploso principalmente in conseguenza della contaminazione fra politica e
affari. Bisogna fare di tutto perchè la tragedia non ricominci. Ed è per questo
che ho sempre preferito e preferisco parlare di regole e non di schieramenti, e
lavorare su un ruolo più chiaro e incisivo delle autorità di controllo e di
sorveglianza».

I volti nuovi vengono dal mattone. Perché?
«Il boom dei
valori immobiliari e la stagnazione degli investimenti produttivi hanno dato
un’importanza senza precedenti alla speculazione. La grande liquidità dei
mercati e i conseguenti bassi tassi d’interesse, inoltre, permettono di
moltiplicare quasi all’infinito le risorse finanziarie. Parlo della fisiologia:
delle patologie se ne dovrebbero occupare le autorità di vigilanza. E la
magistratura».

La corsa al mattone è l’ultima tappa della ritirata del capitale
finanziario dall’investimento nell’industria esposta alla concorrenza. Caduta
del gusto del rischio o effetto di nuove convenienze create dalla
politica?

«Il capitalismo si ammala se le leggi sono tali da
determinare convenienze economiche e fiscali che indirizzano le risorse verso la
speculazione e non verso la produzione e l’innovazione. Bisognerà quindi
prendere le decisioni atte a riequilibrare queste convenienze…».

Non crede che la legge sui fondi immobiliari, che consente ai
promotori di ricollocare anche il proprio patrimonio presso il pubblico,
fornisca una protezione alla speculazione?
«Sì. Ma, più in generale,
cala anche il gusto del rischio: non certo per la finanza, ma per le difficoltà
a fronteggiare la nuova concorrenza, a innovare e, soprattutto, per le
ricorrenti crisi delle imprese al passaggio generazionale».

Quando lei presiedeva l’Iri, il capitalismo italiano aveva tre poli:
la Fiat di Giovanni Agnelli, la Mediobanca di Enrico Cuccia e le Partecipazioni
statali. Abbiamo perso qualcosa?

«Sì. Le abbiamo perse tutti e tre.
Tardi e male. L’evoluzione di questi tre poli doveva essere avviata prima, non
quando la loro forza era stata erosa o indebolita dalla nuova concorrenza
internazionale. La politica di un Paese, se vuol vincere, deve giocare
d’anticipo. È ora di guardare avanti. Niente nostalgie delle regole che
furono».

Alla Banca d’Italia spettano la vigilanza sulla stabilità degli
intermediari finanziari e la tutela della concorrenza nel settore
bancario.

«Ho sentito più volte il precedente presidente
dell’Antitrust, Giuseppe Tesauro, affermare che la competenza di Bankitalia su
cartelli, intese anticoncorrenziali e abusi di posizione dominante non è
appropriata. Condivido, perché tra garanzia della stabilità e garanzia della
concorrenza esiste un palese conflitto».

La legge italiana sull’Opa ha lo scopo di rendere più contendibili le
società. Funziona?

«La nostra è una legge in linea con le altre
europee. Ho l’impressione che vi siano invece scollamenti nel modo di procedere
dei vari regolatori. Mi auguro, come ha detto il presidente della Consob, che
dall’esperienza in corso si possano trarre insegnamenti per il futuro».

Le tensioni nell’azionariato di Rcs Media Group ripropongono la
questione della trasparenza degli assetti proprietari dei media. La legge
sull’editoria impone di rendere nota la proprietà risalendo fino alle persone
fisiche o a eventuali società quotate. Se dunque Ricucci lanciasse un’Opa tutto
diventerebbe più chiaro. Ma al momento…
«Già oggi la Consob, se e
quando ne avesse la volontà, potrebbe promuovere inchieste approfondite e
richieste di chiarimenti anche “a monte”, a fronte di dubbi sul finanziamento di
posizioni rilevanti in società quotate. A maggior ragione lo ritengo necessario
nel caso dei quotidiani. Quando, nel 1963, frequentavo la London School of
Economics, nel manuale il capitolo sulle regole antitrust per la stampa si
intitolava: ” I giornali sono cosa diversa “».

Va difesa l’italianità delle banche?
«Rafforzare la
propria posizione nel mondo è l’obiettivo della politica economica e, quindi,
anche della politica bancaria, di ogni Paese. Il problema sono gli strumenti:
quelli possibili e quelli efficaci. Tra i primi dobbiamo escludere tutti quelli
che vanno contro gli accordi e i ruoli internazionali dell’Italia. Tra i
secondi, mi sembra che debba essere prescelto il rafforzamento dimensionale e
organizzativo dei nostri istituti bancari in Italia e fuori: l’acquisizione di
Hvb da parte di Unicredito serve molto di più della difesa a oltranza delle
nostre banche di fronte agli operatori esteri».

Il governatore Fazio auspica l’intervento di fondi pensione e
assicurazioni nel capitale delle banche. Che ne pensa?

«Dipende da
come si proteggono i risparmiatori. In particolare, le assicurazioni, quando
acquisiscono partecipazioni rilevanti in altre imprese, non devono dare nemmeno
l’impressione di usare le riserve tecniche».

Si contesta il diritto delle coop di investire nelle
banche.
«Non vedo alcun fatto giuridico che lo proibisca. È tutto un
problema di misura e di convenienza. Convenienza rispetto alla bontà
dell’affare. Misura rispetto ai soci».

L’Opa Unipol su Bnl rispetta le due condizioni?
«Un uomo
politico non può e non deve entrare nel merito di singoli affari, ma solo
garantire il rispetto delle regole. Inoltre, attraverso l’impegno di governo,
deve lavorare al miglioramento dell’intera economia premiando la produzione
contro la rendita».

Come giudica lo stato delle Autorità in Italia?
«Sono
troppe e hanno sempre meno autorevolezza e indipendenza. Il Paese non se ne
preoccupa abbastanza, riflette a sufficienza su quanto stia avvenendo in questo
campo. Le Autorità non erano state costituite per riflettere al loro interno il
bilanciamento di potere della politica nazionale».

Ma anche il centrosinistra ha partecipato alla
spartizione.
«Sì. E ha sbagliato».

L’Antitrust deve sorvegliare i conflitti d’interesse dei governanti.
Tesauro e l’ex commissario Ue, Mario Monti, erano contrari. L’attuale presidente
dell’Antitrust, Antonio Catricalà, chiede lumi. Che farà se andrà al
governo?
«Mi sono sempre schierato con Tesauro e Monti. I fatti
dimostrano che avevamo ragione. Se andrò al governo, farò in modo che la ragione
prevalga».

Il dibattito sul governo dell’economia oscilla tra il modello
Wimbledon (non importa la nazionalità di chi vince il torneo, ma che tutti
vengano a Wimbledon a giocare) e il modello francese ispirato a Colbert (lo
Stato interviene nell’economia a difesa dell’interesse nazionale). Lei come si
colloca?

«Poiché esistono diversi modelli di politica industriale,
bisogna che la classe dirigente rifletta sulla politica industriale adatta
all’Italia, dove non è possibile adottare né il modello Wimbledon né Colbert.
Fino a qualche mese fa, era proprio proibito parlare di politica industriale. In
pochi lo continuavamo a fare, ma senza ascolto. Adesso, ci arrivano tutti.
Finalmente si riflette a partire dalla realtà dei distretti e della media
impresa. Ma poi c’è la concorrenza. È economicamente dannoso e politicamente
immorale avere la concorrenza in alcuni mercati e in altri no. Questo non lo
potremo sopportare».