21 Novembre 2004
Prodi e i vincoli del futuro
Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa
POCO prima di lasciare la Commissione di Bruxelles, in una trasmissione di Porta a Porta, Romano Prodi ha detto una cosa che rispecchia con notevole fedeltà lo stato di salute della classe politica italiana. Ha detto che l’Italia è un singolare Paese, che in tutti questi anni «ha continuato a urlare», al punto di «smettere di pensare, d’ascoltare, di discutere, e di convergere poi, una volta finite le discussioni, su posizioni comuni». Sono malattie che si diagnosticano bene quando si guarda il Paese da una certa distanza, e Prodi che in questi giorni fa ritorno nella vita politica nazionale possiede tale prezioso vantaggio. Può paragonare la nostra con altre nazioni, può vedere l’Italia come provincia di un continente che è la nostra seconda patria e si chiama Unione europea. Può intuire lo scarso peso che nel futuro avranno le grida dell’oggi. Può sottolineare l’importanza democratica della discussione, ma poi ricordare che alla fine deve pur esserci, come si vede anche in Europa, la capacità di prender decisioni condivise. Nella stessa trasmissione, Prodi ha detto che questo ha appreso, governando l’Unione: ha imparato a non appiattirsi sul piccolo, breve litigio quotidiano. Ha appreso – preparando l’allargamento, predisponendo il negoziato con la Turchia, immaginando la ripresa economica e l’autonomia diplomatico-militare d’un intero continente – a pensare e progettare il futuro. Con questo bagaglio di esperienze Prodi si appresta a divenire il candidato dell’opposizione alla successione di Berlusconi, e si spera che il bagaglio resti tale, col passare dei giorni e degli anni. Che l’ex presidente della Commissione non perda questa dimensione del futuro, questo sguardo candido sull’Italia, questo senso d’una sfida che ha dimensioni continentali, questa estraneità istintiva alle chiacchiere che non sfociano in decisioni, all’urlo che cancella il pensare. Se Prodi si farà assorbire dal politichese quotidiano diverrà anche lui – presto – parte di quella che Donoso Cortés chiamava, nell’800, clasa discutidora, classe politica chiacchierante (o urlante) destinata a mai concludere. Far rientrare il futuro nella vita politica italiana è possibile a precise condizioni: che ci siano idee sul che fare, tali da fugare le paure; che Prodi non si limiti a ricevere in consegna una leadership, ma infine l’eserciti. Che non si dia un programma partitico classico – composto magari di milletré punti, come il catalogo delle dame di Don Giovanni – ma che tuttavia non dimentichi che importante per la destra come la sinistra è vincere alle urne ma anche avere un piano, un’idea dominante, un qualcosa che risponda a domande profonde e diffuse dell’elettorato: domande che il leader deve far proprie con continuità, testardaggine, senza farsi assorbire dalle grida della clasa discutidora, o dall’ansia di tenere assieme la propria coalizione. Senza limitarsi, soprattutto, a vivere degli errori o delle anomalie dell’avversario. Ancora non si sa se Prodi abbia questo piano, quest’idea dominante, questo qualcosa di cui tanti italiani sentono la mancanza a cui viene ancora dato il vecchio nome di programma. Finora abbiamo visto – del centrosinistra e dell’Ulivo – solo la classe chiacchierante, desiderosa con impazienza più o meno grande di liberare l’Italia da Berlusconi. Finora il centrosinistra non è andato molto oltre, e a volte fa pensare a una donna che per autorealizzarsi ha bisogno di liberarsi del maschio. Per ora siamo allo stadio che Nietzsche considera del tutto infecondo, nello Zarathustra: «Libero, ti chiami? Voglio sentire il tuo pensiero dominante, e non che sei sfuggito a un giogo». Forse più di altri europei, gli italiani hanno bisogno oggi di simili pensieri dominanti, che si propongano di arrestare il declino che innumerevoli cittadini temono. Inutile continuare a dire che la decadenza è frutto di fantasie depresse, o di uno stato psichico irrealistico, che spezza le ali alla speranza. Si spera e s’investe sul futuro se si può non solo sentire e credere con animo fiducioso ma se si può anche agire, capendo quel che sta accadendo a noi italiani ed europei. L’Europa e l’Italia non sono l’America, e non sono le discussioni sui valori più o meno laici o cristiani, che aiuteranno a entrare nel futuro e a ritrovare il coraggio che s’estingue. Si spera e si investe e si cresce se riconosciamo che il pericolo d’una decadenza esiste, che è vicino, e che esige una disposizione mentale incentrata sul che fare e non solo su come sentirsi o credere. I cittadini riprendono coraggio solo se vien data loro una prospettiva di lungo periodo, e vien loro detta l’intera verità sul declino che incombe sull’Unione, e specialmente sull’Italia. È l’impressione che ciascuno può avere leggendo il rapporto sulla crescita e l’occupazione in Europa, redatto da un gruppo d’esperti sotto la guida dell’ex premier olandese Wim Kok e presentato il 3 novembre (il titolo è Facing the Challenges – Far fronte alle sfide). Il capitolo cruciale riguarda il deperimento demografico in Europa: il più forte nel mondo, probabilmente. Un deperimento che spiega il divario tra espansione Usa ed europea, che annulla molti pronostici ottimisti sulla crescita, e che anzi aggraverà nei prossimi decenni la stagnazione attuale. L’invecchiamento dell’Europa aumenterà la domanda di pensioni e assistenza sanitaria – scrive il rapporto – man mano che si ridurrà il numero delle classi d’età produttive. La quota di persone che va in pensione rispetto alla popolazione attiva raddoppierà di qui al 2050, passando dal 24 per cento di oggi al 50. E tra gli europei gli italiani saranno i più colpiti: da noi, la quota di chi andrà in pensione e dipenderà da un numero sempre più esile di giovani raggiungerà il 61%. Per fronteggiare il dramma assai concreto d’un declino e addirittura di un’estinzione sono vere e proprie rivoluzioni, che urgono: mentali e operative. La prima e più grande riguarda l’immigrazione. Immigrati e Islam stanno creando complicazioni gravissime, con il rischio di guerre di religioni e culture. Ma di quest’immigrazione l’Europa e in primis l’Italia hanno bisogno vitale, se vogliono proteggere la popolazione di anziani e scongiurare futuri oscuri desideri di sbarazzarsi dei vecchi. Se vogliono salvaguardare non solo e non tanto le nostre società aperte, ma la sopravvivenza stessa delle società. Anche qui varrà la pena dire la verità. Non sarà facile, integrare gli immigrati che ci sono divenuti ancor più indispensabili di quanto lo fossero negli Anni 60 o 70. E il permissivismo multiculturale non è la risposta, come dimostra quello che sta accadendo nella civile Olanda, in concomitanza con l’assassinio del regista Theo Van Gogh il 2 novembre scorso. Un assassinio cui hanno fatto seguito incendi di chiese e moschee, con estensione del fenomeno alla Germania. Dell’immigrazione abbiamo necessità ma dobbiamo saperla organizzare: adattando costituzioni e leggi, riflettendo sul significato della laicità, obbligando gli immigrati a far propria non solo la nostra lingua ma anche il nostro linguaggio civile, giuridico, e indirizzando infine il loro lavoro verso settori utili. Quel che dicono la Lega e i neoconservatori italiani è un immane e rattristante inganno: non basta ribadire che l’Europa ha radici cristiane (ovviamente le ha, ed è frutto della storia cristiana il fatto che la separazione tra politica e religione si rifletta nel preambolo della costituzione europea). Occorre proporre piani politici più che culturali-religiosi, e mostrare come le trincee anti-immigrazione della Lega siano inadatte ai tempi futuri. Occorre dire che in un modo o nell’altro bisognerà agire: riorganizzando con gli immigrati l’universo di tutti coloro che possono produrre ricchezza, e permettendo dunque agli anziani di non divenire fardelli. L’America è un continente d’immigrazione, può anche permettersi temporanee restrizioni. L’Europa e l’Italia no. Mettere al lavoro chi non è ancora entrato nel ciclo produttivo (i giovani, gli immigrati presenti e futuri, gli anziani che ancora possono operare) è l’unica opportunità che gli europei possono avere, se vogliono evitare un declino altrimenti certo. Se vogliono evitare che un numero crescente di cittadini siano visitati dal più angoscioso degli spettri: lo spettro dell’inutilità. Berlusconi ha sentore di questo declino, intuisce che esso può penalizzarlo, ed è il motivo per cui insiste con tanta caparbia sulla riduzione delle tasse, inimicandosi parte della maggioranza e mettendosi contro un vasto fronte conservatore, di destra e sinistra. Per Prodi e il centrosinistra sarebbe più che rischioso, divenire punto di riferimento di questo fronte dello status quo, dunque della spesa pubblica immutata. Non meno rischioso e miope è chiedere ogni giorno che Berlusconi si dimetta, vista la presunta assurdità del piano fiscale. Tagliare le tasse vuol dire infatti ridurre il bilancio dello Stato, minacciare il potere di singoli ministeri, e anche Prodi dovrà ridurlo. Non ridurrà spese che ritiene essenziali per salvare il modello sociale europeo ma dovrà pur sempre tagliare, se vuol aprire spazio a produzione e crescita. Non si vede come Prodi possa condividere, con il fronte dello status quo, l’idea malsana secondo cui la spesa pubblica è l’unica cosa intangibile, e la sola spesa che si può contrarre è quella privata del cittadino. Così non si vince Berlusconi: gli si lascia il monopolio delle riforme. Da questo punto di vista, è un po’ superfluo arrovellarsi attorno alla questione se le elezioni si vincano al centro o facendo il pieno del proprio campo. È evidente che il candidato a governare deve tener conto delle aspirazioni e delle paure d’un elettorato che non perdonerebbe i fallimenti di Berlusconi, e che non ha votato solo l’imprenditore compromesso con la giustizia ma il politico che prometteva meno tasse e più crescita. Così come è evidente che conviene mobilitare l’insieme del proprio campo, astensionisti compresi. Ambedue le cose sono indispensabili. L’unica cosa da non fare è gioire di questo fallimento berlusconiano, nutrirsi solo di esso, e scommettendo sull’impossibilità di ridurre le tasse scommettere anche sull’impossibilità, dogmaticamente asserita, di intaccare le spese dello Stato. Prodi ancora non ha detto di cosa vuol nutrire il proprio discorso agli italiani e sugli italiani. Forse è ora che cominci a dirlo. Forse proprio lui che già una volta ha creato grandi aspettative vincendo le elezioni e che dopo poco tempo è stato defenestrato, sa che non basta defenestrare Berlusconi disfacendo non già i disastri da esso causati, ma le riforme che il Premier propugna contro i ministri più conservatori. Se ascolterà questi ultimi e si riconoscerà nel fronte dello status quo, si spegnerà presto l’entusiasmo del rientro: giacché status quo vuol dire oggi declino. In tal caso non avremo sentito la verità, ma l’ennesima menzogna. In tal caso non avremo combattuto lo spettro dell’inutilità, che angustia tanti connazionali. In tal caso Prodi darà agli italiani l’impressione che sia possibile liberarsi da un giogo, senza avere però alcun pensiero dominante.