E videntemente collegate al recente deposito della sentenza della Corte
d’appello milanese che, nello scorso dicembre, aveva confermato le condanne di
Cesare Previti e di Attilio Pacifico per una grave vicenda di corruzione del
giudice Renato Squillante, suscitano sconcerto e provocano confusione le
affermazioni del presidente Berlusconi secondo cui l’essere stato egli
prosciolto in altra sede per prescrizione dal medesimo reato «significa che i
pubblici ministeri in 10 anni non hanno convinto i giudici con prove valide che
questo reato sia stato effettivamente commesso». Si ricorderà infatti che, nel
dicembre 2004, al termine di un giudizio stralciato dal processo principale a
carico di Previti, Pacifico e Squillante (affare «Sme-toghe sporche»), il
tribunale di Milano aveva pronunciato sentenza di «non doversi procedere» nei
confronti di Berlusconi, per sopravvenuta prescrizione del reato, proprio con
riferimento al suddetto episodio di corruzione, assolvendolo nel contempo da
altri fatti corruttivi. È assai dubbio se potrà mai svolgersi il giudizio di
appello promosso dal pubblico ministero contro quest’ultima sentenza, dopo che a
metà febbraio un’apposita legge ha di regola escluso l’appellabilità delle
sentenze di proscioglimento. Non è questo, tuttavia, il problema sollevato dalle
perentorie affermazioni del presidente Berlusconi. Il problema nasce, piuttosto,
dall’equivoco insito in quelle affermazioni, specialmente là dove Berlusconi
sostiene che «siccome di prove non ce ne erano è scattata la prescrizione, per
il semplice motivo che non sono riusciti a dimostrare nessuna colpevolezza».
Parole del genere alterano la sostanza delle risultanze processuali, che invece
depongono proprio nel senso contrario. Più precisamente, in situazioni del tipo
di quella che ha condotto a suo tempo il tribunale di Milano a decidere il «non
doversi procedere» nei riguardi di Berlusconi per prescrizione del reato (di
quello stesso reato per il quale sono stati condannati Previti, Pacifico e
Squillante) e ciò a conclusione del dibattimento, e solo grazie alla concessione
delle attenuanti generiche, è palese come la premessa logica di una tale
sentenza sia rappresentata dal previo accertamento dei fatti e delle
responsabilità a carico dell’imputato così prosciolto. In simili ipotesi,
infatti, se mancassero le prove di colpevolezza (od anche soltanto se queste
fossero insufficienti o contraddittorie), il tribunale sarebbe obbligato ad
emettere una sentenza di assoluzione nel merito. Quando, invece, all’esito del
dibattimento, e per effetto delle attenuanti generiche (che, ovviamente, non si
concedono ad un innocente), il tribunale dichiara la scadenza dei termini di
prescrizione, ben si comprende che l’alternativa, ove la prescrizione non fosse
maturata, sarebbe stata una sentenza di condanna: ciò che è capitato, per
esempio, a Previti ed a Pacifico, proprio perché a loro le suddette attenuanti
sono state negate. Ne risulta ribadito, come ha più volte riconosciuto la Corte
di cassazione, e da tempo la stessa Corte costituzionale (decisione n. 72 del
1979), che nelle ipotesi qui considerate la sentenza di proscioglimento per
prescrizione presuppone sempre l’avvenuto «accertamento sulla sussistenza del
fatto e sulla colpevolezza dell’imputato». Ecco perché Berlusconi travisa la
realtà quando lascia intendere che la propria sentenza di proscioglimento per
prescrizione sarebbe stata determinata dall’assenza di prove di colpevolezza.
Così non è, invece. Al contrario, si desume proprio da tale sentenza che,
qualora non gli fossero state concesse le attenuanti generiche, anch’egli
avrebbe condiviso la medesima sorte di Previti e di Pacifico. Forse per questo
la prospettiva di una rinuncia, da parte di Berlusconi, al generoso ombrello
della prescrizione, non ha mai avuto seguito. Dal tribunale di Milano nessuna
assoluzione nel merito Il premier sbaglia a parlare di «mancanza di
prove»