Le primarie sono passate, veloci e impetuose come il maestrale. E hanno spazzato via tutte le nuvole che ne avevano oscurato l´orizzonte, nei mesi precedenti. Così, oggi, Prodi è saldamente al comando dell´Unione. Mentre nel centrosinistra, è ripartito il processo unitario. E le primarie sono diventate metodo acquisito, per definire le candidature nelle prossime elezioni amministrative. Nelle grandi città come nelle regioni.
A Milano come in Sicilia. Tuttavia, tanto entusiasmo, per quanto giustificato, non deve impedire di interpretare correttamente la lezione delle primarie.
Cavalcandone, semplicemente, l´onda impetuosa. Meglio, allora, ragionarci sopra, ancora un poco, prima che il corso degli eventi proceda fino a rendere accademica ogni discussione a proposito. Prima, cioè, che partano tante primarie quante sono le realtà locali dove si voterà; oppure quante sono le circoscrizioni del Parlamento. In modo estemporaneo. Senza nemmeno definirne le regole e i metodi. Come sta avvenendo.
Fra i diversi significati attribuiti alla consultazione del centrosinistra, tre ci sembrano particolarmente utili, per programmare il percorso futuro.
1) Le primarie hanno offerto un ponte alla domanda di molti cittadini di “entrare” nella vita politica, da cittadini, non solo da spettatori. Ridurle a una dimostrazione “antiberlusconiana” ci sembra, sinceramente, riduttivo. La voglia di manifestare dissenso, certamente, conta. Ma non va considerata l´unica, e neppure la principale molla di questa sorprendente mobilitazione. Dimenticheremmo, altrimenti, la lunga sequenza di episodi che, negli ultimi anni, hanno sottolineato la domanda di partecipazione della società, diffusa soprattutto – ma non solo – fra gli elettori di centrosinistra. Le grandi mobilitazioni sui temi della pace, del lavoro, dell´informazione. Ma anche le mille iniziative locali, spesso istituzionalizzate in esperienze di democrazia deliberativa. Abbiamo, per questo, parlato, di abitudine alla partecipazione.
Abitudine. Per sottolineare la diffusa resistenza (e persistenza) nella società di alcuni “vizi virtuosi”. Come, ad esempio, l´ostinazione a considerare la politica una pratica che non si riduce nel voto a uno schieramento o un candidato. Una volta ogni tanto.
2) Sotto questo profilo, le primarie hanno offerto un segnale ambivalente. Al loro esito hanno contribuito i partiti e i candidati. Ma il loro successo è stato sancito dalla volontà di andare oltre gli attuali partiti. E´, infatti, evidente il legame fra la partecipazione elettorale, il voto ai candidati, e le basi organizzative dei partiti – soprattutto i Ds – oppure l´influenza dei legami personali nel territorio (Mastella nel Mezzogiorno). Eppure, la mobilitazione è stata così ampia da superare di gran lunga – per numero – non solo gli iscritti, ma anche i simpatizzanti dei partiti. Considerati insieme agli amici di Mastella. Per questo motivo, il risultato ottenuto da Bertinotti non va oltre l´incidenza elettorale di Rifondazione nella coalizione. Altre volte, il maggior grado di coinvolgimento e di impegno politico dei suoi elettori ne aveva amplificato la voce e allargato la rappresentanza. Non questa. Perché, appunto, la partecipazione si è estesa ad ampi ceti, normalmente poco “militanti”. In altri termini: alla società media.
3) Le primarie hanno, quindi, sottolineato una esplicita, estesa domanda di “politica” che attraversa la società. Con due interessanti implicazioni. Per nulla scontate. Una, perfino inattesa. a) C´è domanda di unità. Che non necessariamente significa in “partito unico”, ma sicuramente “ricerca di ciò che unisce”. Mentre nel centrosinistra, spesso, avviene il contrario. Senza soluzioni rigide. (Come un “partito unico” del centrosinistra, che riunisca concezioni troppo distinte e distanti). b) C´è una, sorprendente, domanda di identità e di appartenenza politica. Sottolineata dalla disponibilità di milioni di persone a “catalogarsi”, “etichettarsi”. A “farsi etichettare”. Firmare una dichiarazione di adesione a un programma. Pagare una quota. Farsi “riconoscere” come elettori di centrosinistra, nel momento stesso in cui si va a votare, facendo la fila. Di fronte agli occhi di tutti. Insomma “iscriversi” a un partito. Ma, ripetiamo, a un “partito nuovo”. Che non “esclude” altre appartenenze, semmai le “include”. Non vorremmo si pensasse che forziamo il significato di questo dato. Perché sono numerosi gli esempi di identità politiche “esibite”, negli ultimi anni.
Rammentiamo, per tutti, il caso delle bandiere arcobaleno, che hanno – a lungo – ornato le finestre e i balconi di molte case. Un modo di dichiararsi. Palese. Ha coinvolto fino al 30% della popolazione. Con una densità particolare nelle regioni del centronord e del nordest: la filigrana sottesa alla partecipazione alle primarie. Si trattava, anche allora, di persone, in prevalenza, non militanti. A esporre le bandiere, lo rammentiamo, erano le donne, più degli uomini.
Da ciò l´impressione che le primarie abbiano costituito una grande opportunità per esprimere ben di più della scelta di un candidato (peraltro annunciato).
Per questo, spiacerebbe se, in futuro, venissero ridotte a un rituale, all´ombra del quale riproporre le antiche logiche – o le degenerazioni recenti – della politica italiana.
a) Come via d´uscita, quando risulti impossibile l´accordo fra i partiti. Come tecnica per bypassare la complessa e vitale rete di esperienze di democrazia deliberativa, cresciuta nel territorio, imponendo candidati, comunque, “sponsorizzati” dalle segreterie nazionali. Insomma, come metodo per “mobilitare e unificare il popolo di sinistra” senza superare le divisioni e il frazionismo del centrosinistra.
b) Come meccanismo neopopulista. Che rischia di “premiare” non tanto il candidato migliore, per rappresentanza e competenza di governo. Ma la figura più visibile. Capace di esaltare sentimenti, memorie, simboli. Meglio se “estranea” al sistema politico. Dario Fo, Rita Borsellino. Ma anche il prefetto di Milano, Bruno Ferrante o il rettore di Catania, Ferdinando Latteri. O Milly Moratti. Che, senza entrare nel merito e nei meriti delle persone, non hanno avuto modo, fino ad oggi, di esercitare e dimostrare le loro abilità politiche e amministrative.
Se ne colgono due rischi opposti – e complementari.
“Strumentalizzare” la società per rafforzare cerchie politiche ristrette. Enfatizzando le divisioni interne. Oppure, santificare le virtù salvifiche di una presunta “società civile”. Tanto più “civile” quanto più distante dalla politica (anche se, spesso, i suoi candidati sono sponsorizzati dai partiti).
Per questo è importante che il centrosinistra, dopo aver celebrato i fasti delle primarie, con giusta enfasi e soddisfazione, non si illuda. Le primarie non sono tutto. Ma tutto, oggi, passa attraverso le primarie, prossime venture. L´Unione deve, per questo, regolarle in modo chiaro e trasparente. Definirne le modalità di accesso, presentazione, competizione. Collegare il confronto sui candidati a quello sui progetti. Attorno a cui vincolare tutti, successivamente. Occorre, cioè, uscire dall´improvvisazione attuale. Sperando che il miracolo del 16 ottobre si rinnovi, puntuale, ogni volta. Il rischio, altrimenti, è che, presto, la loro efficacia si disperda.
Per disegnare il Partito Democratico di domani (a proposito: dov´è finito l´Ulivo?), senza farne il calco del centrosinistra di ieri, conviene, dunque, partire dalle primarie. Oggi. Uscendo, senza equivoci, dal dilemma fra partitocrazia, anzi partitinocrazia viste le attuali dimensioni delle forze in campo, e retorica dell´impolitica che, da dieci anni, continua a riproporsi.
Sarebbe imperdonabile. E, questa volta, irrimediabile.