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14 Dicembre 2005

Precari, l’altro Mezzogiorno

Autore: Pietro Ichino
Fonte: Corriere della Sera

«Il contratto nazionale rimane lo strumento universale e indispensabile per garantire pari diritti su tutto il territorio nazionale».

E’ quanto scrive Guglielmo Epifani nell’Ottava tesi per il congresso della Cgil. Epifani respinge così l’idea che un sindacato serio possa contrattare in una regione o in una azienda condizioni di lavoro diverse rispetto a quanto negoziato a Roma.

Uguaglianza e solidarietà tra i lavoratori del Nord e quelli del Sud d’Italia: questi sono i valori che il sindacato promuove difendendo il contratto nazionale, come standard inderogabile.


Il problema è che, se in una zona i difetti di sistema fanno sì che la produttività del lavoro sia più bassa rispetto al resto del Paese, le imprese applicando quello standard non riescono a restare a galla.

È quanto accade diffusamente nel nostro Mezzogiorno, dove, per sopravvivere, molte imprese disapplicano leggi e contratti collettivi.

Opporsi a questo fenomeno imponendo l’inderogabilità del contratto nazionale rientra fra le opzioni ragionevoli; a un patto, però: che non sia un’opzione finta, cioè che se ne traggano con rigore tutte le conseguenze.

Quindi, che si mandino gli ispettori a chiudere le aziende irregolari. Il lavoro nero si sa benissimo dove si annida e dove prospera; allora, che cosa si aspetta a intervenire?


La risposta è facile: intervenire significherebbe sopprimere molte centinaia di migliaia di posti di lavoro; e nessuno se la sente di provocare questa catastrofe.

Il fatto è che la parità di trattamento presuppone una pari produttività effettiva; e questa, se non c’è, non la si impone con un tratto di penna del legislatore, e neppure con un contratto collettivo.

L’arretratezza del Mezzogiorno si supera aumentando il tasso di effettività della legge, migliorando le infrastrutture, riducendo i costi dei servizi, eliminando le rendite parassitarie: tutte cose che richiedono mobilitazione collettiva, maturazione di una nuova cultura, acquisizione di capacità amministrative mancanti; magari anche una concertazione «aggressiva» tra sindacato, imprese e pubblici poteri.

E richiedono che nel frattempo si abbassino gli standard di trattamento previsti dal contratto nazionale, poiché solo così si può esigerne realisticamente il rispetto.

Imporre l’inderogabilità dello standard nazionale tollerandone al contempo la diffusa disapplicazione è pura ipocrisia; e un’ipocrisia molto dannosa, poiché consente all’illegalità di radicarsi, di diventare costume e cultura di un’intera zona.


L’uguaglianza di cui stiamo parlando non si crea per decreto: va costruita con fatica, pezzo per pezzo, nel vivo della società civile.

Finché questo processo di costruzione non è compiuto, pretendere di imporre la parità di trattamento per legge o per contratto produce soltanto un aumento delle disuguaglianze effettive, talvolta addirittura fenomeni di segregazione ed esclusione dei più deboli.


*** Un discorso del tutto analogo vale per un altro «Mezzogiorno»: lo abbiamo intorno e ci conviviamo quotidianamente anche nelle zone più prospere del Centro-Nord.

È il mondo del lavoro precario e fuori standard, dei bad jobs: un mondo di cui fanno parte milioni di lavoratori poco o per nulla protetti, di lavoratori «a progetto» e altri collaboratori spacciati per «autonomi» ma più «dipendenti» che mai.

Anche qui la Cgil chiede, condivisibilmente, «equiparazione dei diritti, delle tutele e dei costi cui deve far fronte l’impresa» (Quinta tesi congressuale); ma non sembra interrogarsi sulla questione cruciale: quanti di questi posti di lavoro, oggi di serie B, sopravviverebbero a una rigorosa parificazione di diritti e costi rispetto allo standard di trattamento dei lavoratori di serie A?


Questi posti di lavoro sotto standard sono per lo più ben visibili: per esempio nei call center,

oppure in certe cooperative e altre aziendine appaltatrici di servizi sotto-costo; oppure in imprese medio-grandi, comuni, province, ospedali, università, che ingaggiano lavoratori «a progetto» e co.co.co. per far fare loro il lavoro rifiutato dai regolari, o per portare tutto il peso della flessibilità di cui l’impresa o l’ente ha bisogno e che il diritto del lavoro di serie A non consente.

Anche qui, come per il lavoro nero del Sud, se di fatto si tollera questa specie di conclamata apartheid è perché si teme, fondatamente, che una severa ed effettiva «equiparazione dei diritti, delle tutele e dei costi», cioè l’applicazione rigorosa del diritto, avrebbe l’effetto di sopprimere la maggior parte dei posti di lavoro che si vorrebbero bonificare.

Quindi si chiude un occhio, o li si chiudono tutti e due. Li chiude anche la Cgil, beninteso, che chiede l’«equiparazione» nelle tesi congressuali, ma si guarda bene dal chiederla e mobilitarsi fattivamente per ottenerla nella miriade di aziende ed enti pubblici dove questi paria lavorano a stretto contatto di gomito con i lavoratori regolari e ben protetti.


Questa vasta area di precariato non è stata né causata né incrementata dalla legge Biagi; il lavoro precario è invece venuto diffondendosi in varie forme nell’arco dell’ultimo trentennio (non invidiabile peculiarità del mercato del lavoro italiano), come risposta spontanea del tessuto produttivo alle rigidità del diritto del lavoro.

Se siamo convinti — e lo siamo tutti, in realtà, Cgil compresa — che non sia ragionevolmente pensabile di sradicare il fenomeno imponendo l’estensione secca del diritto del lavoro attuale, così com’è, dobbiamo ideare un nuovo diritto del lavoro, ispirato ai migliori modelli che ci si offrono nel panorama europeo, suscettibile di applicarsi davvero a tutta la forza lavoro italiana e non soltanto a metà di essa.

Allora sì — magari gradualmente, incominciando con i nuovi rapporti di lavoro che via via si costituiscono — potremo proporci di estenderne l’applicazione davvero a tutti, senza ipocrite esenzioni.