Portato a protagonista in un inedito reality show su Rai3, Pino Pelosi ha raccontato la sua verità sulla morte di Pasolini avvenuta trent´anni fa, la notte fra il 1° e il 2 novembre 1975, sul campo dell´Idroscalo a Ostia. Questa verità coincide per grosse linee con quanto era stato codificato nella sentenza di primo grado, firmata dal presidente Alfredo Carlo Moro del Tribunale dei Minori di Roma, e depositata in Cancelleria il 21 maggio 1976.
Pelosi dice che a uccidere Pasolini furono tre uomini, adulti quarantenni, uno di loro barbuto, spuntati dal nulla nel buio di quella notte: parlavano con accento meridionale, apostrofarono Pasolini come «fetuso comunista», lo tirarono giù dalla macchina dove si trovava e lo bastonarono fino a renderlo uno straccio insanguinato. Avrebbero minacciato anche Pelosi di morte, lui e la sua famiglia – e per questo lui avrebbe taciuto fino ad oggi, morti i genitori uno dopo l´altro di tumore, e probabilmente morti anche gli aggressori. A lui, quella notte, non era restato che fuggire sulla macchina dello scrittore – e, se gli era passato sopra schiantandogli il cuore, non se ne accorse, stravolto com´era dalla paura.
Se c´è una novità nel racconto di Pelosi, scaldato dalle telecamere, a parte la denuncia della presenza dei terzi a lui ignoti, è quel che dice di Pasolini: un uomo gentile, “che parlava italiano”, e col quale il rapporto orale che aveva avuto si era svolto con quieta naturalezza fino alla conclusione. Solo a quel punto erano apparsi i tre, sgusciando all´improvviso dall´oscurità.
Nella sentenza Moro è riportata la deposizione di Pelosi diciassettenne.
Pasolini, concluso il rapporto, lo avrebbe invece inseguito con un paletto trovato a terra, avrebbe voluto «infilarglielo nel sedere o per lo meno lo aveva appoggiato contro il sedere senza nemmeno abbassargli i pantaloni», e lo aveva spaventato perché aveva «una faccia da matto». L´inseguimento era culminato in una colluttazione violentissima: quindi la fuga in macchina, Pasolini schiantato a terra, eccetera. Pelosi poco dopo fu sorpreso da una gazzella dei carabinieri del tutto netto da sangue o fango.
L´immagine del Pasolini sadico sparisce oggi dalle parole del Pelosi uomo maturo: riappare la persona gentile che conoscevamo. E questo non è di poco conto.
Quando non potevamo dare credito al fatto che Pasolini fosse stato ucciso da una singola mano, una certezza l´avevamo, che era stato ucciso un poeta dei più grandi che la letteratura italiana avesse avuto (sì, lo so, da allora, e sempre sarà, è un continuo correggere questa affermazione: ma non trovo ragioni concrete, se non di arida letterarietà, che la inficino). Ma era stato ucciso, oltre tutto, l´intellettuale che aveva messo sotto gli occhi di un paese intero l´equivoca realtà di un successo economico e industriale dal profilo all´apparenza forte ma alla sostanza fragilissimo.
Dissolvendosi quel barlume di borghesia che pure aveva dato un contribuito decisivo al formarsi di una coscienza repubblicana; dissolvendosi anche il tessuto connettivo della forza contadina che aveva nutrito con le emigrazioni interne la forza lavoro dell´industrializzazione; parcellizzandosi questa nella tragedia del lavoro nero e delle evasioni fiscali: Pasolini parlò di mutazione antropologica, di colpevoli responsabilità politiche, con una foga fino ad allora sconosciuta a qualsiasi altro intellettuale. Le parole dello scrittore erano brucianti per tutti. La destra continuò contro di lui una polemica di chiara marca “fascista”. E la sinistra, specie dalle colonne dell´Unità, non risparmiò anche insulti, i più pesanti: l´accusa era di disfattismo. Difendevano Pasolini i giovani della Federazione Giovanile Comunista, Walter Veltroni, Gianni Borgna fra gli altri – e con essi lo scrittore ebbe un incontro pubblico sulla terrazza del Pincio a Roma, una sera tiepida di primavera, quando più infuriavano le sue polemiche “corsare” e “luterane”. Là si capì quanto di vitalità, per niente pessimistica, il poeta offrisse alla prospettiva di un paese che doveva guadagnare senza infingimenti sulla via della libertà e della democrazia.
Quella rottura di schemi, contro ideologie ormai in stato di sclerosi, era giudicata eccessiva provocazione. Pasolini denunciava la stanchezza morale del paese, il suo cedere collettivo a prospettive di un imperio mediatico. Mise sotto accusa la centralità, allora incipiente, degli usi televisivi.
Era l´ultima volta che lo vidi: una settimana prima che lo uccidessero. Lui con Laura Betti erano venuti a trovarci una sera a casa dopo cena. Laura aveva portato una torta per i nostri ragazzi, ma loro già dormivano, e Pier Paolo lasciò un bigliettino sotto la porta della loro stanza con scritto, “Ciao”. Era appena tornato da Parigi, andava a Stoccolma il giorno dopo. Raccontava che i film a luci rosse adesso sciamavano per le sale degli Champs Elysèes. «Finirà così: non più cinema, ma pornografia e televisione, e la televisione vorrà educare i nostri modi di vita, costruendo storie su misura, incollati i modelli gli uni agli altri, mostrando che la vita è impastata di continua serialità. E questo sarà il nuovo fascismo che avremo addosso, la nuova demagogia. Vedrai “Salò”, e capirai cosa voglio dire quando sostengo che la politica favorendo la riduzione dell´eros alla semplice ripetitività del sesso eliminerà il problema della persona umana, dell´individuo». Il suo furore si scagliava contro i partiti di maggioranza relativa che governavano con cinismo il progressivo dissolvimento dello spirito pubblico. Guardava oltre ciò che appare e il suo sguardo era fulminante. In quel dissolvimento vedeva fuoriuscire violenza allo stato puro, una violenza che investiva tutte le forme della convivenza civile, a cominciare proprio dalla politica. La mutazione antropologica – cambiavano le facce, i corpi degli italiani, scriveva – gli appariva pari a una lebbra.
In tanti anni da allora la presenza di Pasolini è stata spesso invocata, dagli stessi suoi critici. Sono forme, queste, di nostalgia collettiva, che esprimono una specie di rimosso o di cattiva coscienza nei suoi confronti. L´omosessuale che il Pci aveva cacciato, quasi fosse un appestato, nel 1949 dalle proprie file aveva richiamato tutta la politica, non solo la sinistra, a un rendiconto generale che scaraventava oltre ogni ostacolo l´ossidato contenzioso fra destra e sinistra. Per questo, c´è da ripeterlo ancora una volta, Pasolini non cercò il suicidio attraverso una terza mano – fatto cui alludeva il servizio televisivo che accompagnava l´interrogatorio a Pelosi l´altra sera. Basta, non si insista su questa sciocchezza di comodo che finisce con lo scagionare ogni tipo di delitto.
Fu ucciso, non c´è altro da dire –, e da mano ignota, presente la triste controfigura di Pelosi. Lo capimmo subito. Su quella morte, va chiesto che non si sollevi altra polvere, o altre contraddittorie e confuse ipotesi. Sapevamo pure, senza che nessuno ce lo avesse detto: che, nel bastonarlo a sangue, i suoi assassini lo avevano apostrofato urlando «fetuso comunista».