Se Germania, Francia e Italia crescessero come gli altri Paesi, l’Europa avrebbe una performance economica superiore a quella americana. Nessuno parlerebbe di crisi del modello sociale europeo, così come non se ne parla in Austria, Irlanda, o Svezia. Guarderemmo il futuro con ottimismo, senza aver sospetto delle libertà e delle differenze, né timore della futura salvaguardia dei diritti. Se l’Europa fosse economicamente forte, avrebbe buon gioco ad essere il magnete politico di tolleranza e integrazione che il mondo le chiede di essere.
Ma le economie di Germania, Francia e Italia deludono: non sono così grandi e avanzate tecnologicamente da compensare la nuova concorrenza dei continenti a basso costo del lavoro. I loro settori dei servizi, il 70% del pil, chiusi alla competizione, sono arretrati e preda di servitù politiche. E i loro governi, sfibrati da una corsa circolare, traditi da un uso adulterato dell’Europa, sono convinti di poter limitare i danni con un po’ più di protezionismo e un po’ più di indebitamento. Sono questi i tre Paesi infatti che a Bruxelles in queste ore hanno sostenuto la revisione del patto di stabilità per potersi indebitare di più, si sono opposti a liberalizzare i servizi e corteggiano l’idea di imporre dazi.
Sotto la pressione globale, la sofferenza di questi Paesi dura da più di una legislatura, da più di un governo, attraversando ogni fase del ciclo economico mondiale. Berlino lo ha capito e, con le decisioni ad hoc di Bruxelles, ha ottenuto un anno di quiete pre-elettorale in cui lasciar dispiegare i benefici delle profonde riforme intraprese. Parigi, che ha minori problemi di crescita, sta tentando di recuperare il consenso di chi vede nell’Europa un altro nome della globalizzazione. L’Italia invece ha cercato a Bruxelles soprattutto nuove munizioni di campagna elettorale: come se la politica fosse il fine di se stessa, l’oblio dei fini della società disincantata di cui parlava Max Weber, con una vecchia tendenza a segare il ramo su cui siede.
A ben leggere i dettagli dell’autopsia del patto di stabilità, si capisce che nemmeno i nuovi agili margini di finanza pubblica permettono a un Paese di rinviare le riforme. E dal punto di vista politico, l’euro e la comunità politica che lo forma, continuano a rappresentare un ambito di disciplina. Chi vuole barcamenarsi politicamente tornando agli strumenti anestetici degli Anni Settanta, i dazi, la spesa pubblica, un po’ di svalutazione, dovrebbe quindi lasciare l’Europa, finendo comunque travolto dalla trasformazione dell’economia mondiale.
Le forze liberate dalla globalizzazione sono troppo forti per essere arginate da chi governa società liberali. Ritardando l’aggiustamento o falsificando le cifre, i governi aggravano solamente i problemi. Essi stessi diventano il problema: con una retorica da culturismo politico, dove ciò che più è gonfio meno è sostanzioso, spingono il Paese su un piano scivoloso. Per affrancarsi dalla pressione competitiva, un governo dovrebbe infatti vietare i movimenti di capitale all’estero; limitare la libertà di circolazione delle persone in ingresso e in uscita dal Paese; estinguere con la forza l’economia sommersa; disinnescare la disciplina dei mercati finanziari rinnegando i propri debiti. Nulla di ciò è pensabile in una società democratica. Ma intanto in Italia, a parole, abbiamo cominciato: prima i dazi, poi l’Europa ostile, poi il protezionismo, poi più debiti. E poi?