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26 Settembre 2008

Pericle insegnami che cos’è la legge”

Autore: Gustavo Zagrebelsky
Fonte: La Repubblica

«DIMMI, Pericle, mi sapresti insegnare che cosa è la legge?» chiede
Alcibiade a Pericle. Pericle risponde: «Tutto ciò che chi comanda, dopo
aver deliberato, fa mettere per iscritto, stabilendo ciò che si debba e
non si debba fare, si chiama legge». E prosegue: «Tutto ciò che si
costringe qualcuno a fare, senza persuasione, facendolo mettere per
iscritto oppure in altro modo, è sopraffazione piuttosto che legge». Se
non ci si parla, non ci si può comprendere e, a maggior ragione, non è
possibile la persuasione.

Questa è un´ovvietà. Per intendere però
l´importanza del contesto comunicativo, cioè della possibilità che alle
deliberazioni legislative concorra un elevato numero di voci che si
ascoltano le une con le altre, in un concorso che, ovviamente, non è
affatto detto che si concluda con una concordanza generale, si può
ricorrere a un´immagine aristotelica, l´immagine della preparazione del
banchetto. In questa immagine c´è anche una risposta all´eterna
questione, del perché l´opinione dei più deve prevalere su quella dei
meno.

Il principio maggioritario è una semplice formula giuridica,
un espediente pratico di cui non si può fare a meno per uscire dallo
stallo di posizioni contrapposte (E. Ruffini)? È forse solo una
«regoletta discutibile» (P. Grossi) che trascura il fatto che spesso la
storia deve prendere atto, a posteriori, che la ragione stava dalla
parte delle minoranze, le minoranze illuminate (e inascoltate)?

Oppure,
si tratta forse non di una regoletta ma di un principio che racchiude
un valore? Non diremo certo che la maggioranza ha sempre ragione (vox
populi, vox dei: massima della democrazia totalitaria), ma forse, a
favore dell´opinione dei più, c´è un motivo pragmatico che la fa
preferire all´opinione dei meno. A condizione, però, che «i più» siano
capaci di dialogo e si aggreghino in un contesto comunicativo, e non
siano un´armata che non sente ragioni.

In un passo della Politica di
Aristotele (1281b 1-35), che sembra precorrere la sofisticata
«democrazia deliberativa» di Jürgen Habermas e che meriterebbe un esame
analitico come quello di Senofonte al quale ci siamo dedicati,
leggiamo: «Che i più debbano essere sovrani nello Stato, a preferenza
dei migliori, che pur sono pochi, sembra che si possa sostenere:
implica sì delle difficoltà, ma forse anche la verità. Può darsi, in
effetti, che i molti, pur se singolarmente non eccellenti, qualora si
raccolgano insieme, siano superiori a ciascuno di loro, in quanto presi
non singolarmente, ma nella loro totalità, come lo sono i pranzi comuni
rispetto a quelli allestiti a spese di uno solo. In realtà, essendo
molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e quando si
raccolgono e uniscono insieme, diventano un uomo con molti piedi, con
molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte
eccellenti doti di carattere e d´intelligenza».

Dunque, inferiori
presi uno per uno, diventano superiori agli uomini migliori, quando è
consentito loro di contribuire all´opera comune, dando il meglio che
c´è in loro. Più numeroso il contributo, migliore il risultato.

Naturalmente,
quest´immagine del pranzo allestito da un «uomo in grande» non supera
questa obiezione: che nulla esclude che ciò che si mette in comune sia
non il meglio, ma il peggio, cioè, nell´immagine del pranzo, che le
pietanze propinate siano indigeste. Ma questa è un´obiezione, per così
dire, esterna. Dal punto di vista interno, il punto di vista dei
partecipanti, è chiaro che nessuno di loro ammetterebbe mai che il
proprio contributo all´opera comune è rivolta al peggio, non al meglio.

Ognuno
ritiene di poter contribuire positivamente alle decisioni collettive;
l´esclusione è percepita come arbitrio e sopraffazione proprio nei
riguardi della propria parte migliore.
Ora, accade, e sembra
normale, che il partito o la coalizione che dispone della maggioranza
dei voti, sufficiente per deliberare, consideri superfluo il contributo
della minoranza: se c´è, bene; se non c´è, bene lo stesso, anzi,
qualche volta, meglio, perché si risparmia tempo. Le procedure
parlamentari, la logica delle coalizioni, la divisione delle forze in
maggioranza e opposizione, il diritto della maggioranza di trasformare
il proprio programma in leggi e il dovere delle minoranze, in quanto
minoranze, di non agire solo per impedire o boicottare, rendono
comprensibile, sotto un certo punto di vista, che si dica: abbiamo i
voti e quindi tiriamo innanzi senza curarci di loro, la minoranza. Ma è
un errore. Davvero la regola della maggioranza si riduce così «a una
regoletta». Una regoletta, aggiungiamo, pericolosa. Noi conosciamo,
forse anche per esperienza diretta, il senso di frustrazione e di
umiliazione che deriva dalla percezione della propria inutilità. Si
parla, e nessuno ascolta. Si propone, e nessuno recepisce. Quando la
frustrazione si consolida presso coloro che prendono sul serio la loro
funzione di legislatori, si determinano reazioni di auto-esclusione e
desideri di rivincita con uguale e contrario atteggiamento di chiusura,
non appena se ne presenterà l´occasione. Ogni confronto si trasformerà
in affronto e così lo spazio deliberativo comune sarà lacerato. La
legge apparirà essere, a chi non ha partecipato, una prevaricazione.

La
«ragione pubblica» – concetto oggi particolarmente studiato in
relazione ai problemi della convivenza in società segnate dalla
compresenza di plurime visioni del mondo – è una sfera ideale alla
quale accedono le singole ragioni particolari, le quali si confrontano
tramite argomenti generalmente considerati ragionevoli e quindi
suscettibili di confronti, verifiche e confutazione; argomenti che, in
breve, si prestino a essere discussi. Le decisioni fondate nella
ragione pubblica sono quelle sostenute con argomenti non
necessariamente da tutti condivisi, ma almeno da tutti accettabili come
ragionevoli, in quanto appartenenti a un comune quadro di senso e di
valore. Contraddicono invece la ragione pubblica e distruggono il
contesto comunicativo le ragioni appartenenti a «visioni del mondo
chiuse» (nella terminologia di John Rawls, che particolarmente ha
elaborato queste nozioni, le «dottrine comprensive»). Solo nella sfera
della «ragione pubblica» possono attivarsi procedure deliberative e si
può lavorare in vista di accordi sulla gestione delle questioni
politiche che possano apparire ragionevoli ai cittadini, in quanto
cittadini, non in quanto appartenenti a particolari comunità di fede
religiosa o di fede politica.

Un sistema di governo in cui le
decisioni legislative siano la traduzione immediata e diretta – cioè
senza il filtro e senza l´esame della ragione pubblica – di precetti e
norme derivanti da una fede (fede in una verità religiosa o mondana,
comunque in una verità), sarebbe inevitabilmente violenza nei confronti
del non credente («l´infedele»), indipendentemente dall´ampiezza del
consenso di cui potessero godere. Anzi, si potrebbe perfino stabilire
la proporzione inversa: tanto più largo il consenso, tanto più grande
la violenza che la verità è capace di contenere.

Sotto questo
aspetto, dire legge non violenta equivale a dire legge laica; al
contrario, dire legge confessionale equivale a dire legge violenta. La
verità non è di per sé incompatibile con la democrazia, ma è funzionale
a quella democrazia totalitaria cui già sì è fatto cenno.

L´esigenza
di potersi appellare alla ragione pubblica nella legislazione, un
quanto si voglia sconfiggere la violenza che sempre sta in agguato nel
fatto stesso di porre la legge, spiega la fortuna attuale dell´etsi
Deus non daretur, la formula con la quale, quattro secoli fa, Ugo
Grozio invitava i legislatori a liberarsi dall´ipoteca confessionale e
a fondare il diritto su ragioni razionali; invitava cioè a lasciar da
parte, nella legislazione civile, le verità assolute. Mettere da parte
Dio e i suoi argomenti era necessario per far posto alle ragioni degli
uomini; noi diremmo: per costruire una sfera pubblica in cui vi fosse
posto per tutti. Naturalmente, da parte confessionale un simile invito
ad agire indipendentemente dall´esistenza di Dio non poteva non essere
respinto. Per ogni credente, Dio non si presta a essere messo tra
parentesi, come se non ci fosse. Ma l´esigenza che ha mosso alla
ri-proposizione di quell´antica espressione (G. E. Rusconi) non è
affatto peregrina. È l´esigenza della «ragione pubblica». A questa
stessa esigenza corrisponde l´invito opposto, di parte confessionale,
rivolto ai non credenti affinché siano loro ad agire veluti si Deus
daretur (J. Ratzinger). Altrettanto naturalmente, anche questo invito è
stato respinto.

Per un non credente in Dio, affidarsi a Dio (cioè
all´autorità che ne pretende la rappresentanza in terra) significa
contraddire se stessi. Ma questa proposta-al-contrario coincide con la
prima, nel sottolineare l´imprescindibilità di un contesto comune, con
Dio per nessuno o con Dio per tutti, nel quale la legge possa essere
accettata generalmente in base alla persuasione comune.

Entrambe le
formule non hanno dunque aiutato a fare passi avanti. Sono apparse anzi
delle provocazioni, ciascuna per la sua parte, alla libertà,
autenticità e responsabilità della coscienza. In effetti, non si tratta
affatto di esigere rinunce e conversioni di quella natura, né, ancor
meno, di chiedere di agire come se, contraddicendo se stessi. Non è
questa la via che conduce a espungere la violenza dalla legislazione.

Un
punto deve essere tenuto fermo: la legge deve essere aperta a tutti gli
apporti, compresi quelli basati su determinate assunzioni di verità. La
verità può trovare posto nella democrazia e può esprimersi in
«legislazione che persuade», perché la democrazia non è nichilista. Ma
solo a patto però – questo è il punto decisivo – che si sia disposti,
al momento opportuno, quando cioè ci si confronta con gli altri, a
difendere i principi e le politiche che la nostra concezione della
verità a nostro dire sostiene, portando ragioni appropriatamente
pubbliche (J. Rawls).

Così, i sistemi religiosi, filosofici,
ideologici e morali non sono esclusi dalla legislazione, ma vi possono
entrare solo se hanno dalla propria parte anche buone ragioni «comuni»,
su cui si possa dissentire o acconsentire, per pervenire a decisioni
accettate, pur a partire da visioni del mondo diverse, come tali non
conciliabili. La legislazione civile, in quanto si intenda spogliarla,
per quanto è possibile, del suo contenuto di prevaricazione, non può
intendersi che come strumento di convivenza, non di salvezza delle
anime e nemmeno di rigenerazione del mondo secondo un´idea etica chiusa
in sé medesima.

Il divieto dell´eutanasia può essere argomentato con
una ragione di fede religiosa: l´essere la vita proprietà divina («Dio
dà e Dio toglie»); l´indissolubilità del matrimonio può essere
sostenuta per ragioni sacramentali («non separare quel che Dio ha
unito»). Argomenti di tal genere non appartengono alla «ragione
pubblica», non possono essere ragionevolmente discussi. Su di essi ci
si può solo contare. La «conta», in questi casi, varrà come potenziale
sopraffazione. Ma si può anche argomentare diversamente. Nel primo
caso, ponendo il problema di come garantire la genuinità della
manifestazione di volontà circa la fine della propria esistenza; di
come accertare ch´essa permanga tale fino all´ultimo e non sia revocata
in extremis; di come evitare che la vita, nel momento della sua massima
debolezza, cada nelle mani di terzi, eventualmente mossi da intenti
egoistici; di come evitare che si apra uno scivolamento verso politiche
pubbliche di soppressione di esseri umani, come dicevano i nazisti, la
cui vita è «priva di valore vitale». Alla fine, se ne potrà anche
concludere che, tutto considerato, difficoltà insormontabili e rischi
inevitabili o molto probabili consigliano di far prevalere il divieto
sul pur molto ragionevole argomento dell´esistenza di condizioni di
esistenza divenute umanamente insostenibili. Oppure, viceversa. Nel
secondo caso, si potrà argomentare sull´importanza della stabilità
familiare, nella vita e nella riproduzione della vita delle persone e
delle società; a ciò si potrà contrapporre il valore della genuinità
delle relazioni interpersonali e la devastazione ch´esse possono subire
in conseguenza di vincoli imposti. Su questo genere di argomenti si può
discutere, le carte possono mescolarsi rispetto alle fedi e alle
ideologie, le soluzioni di oggi potranno essere riviste domani. Chi,
per il momento, è stato minoranza non si sentirà per questo oggetto di
prevaricazione.

Qualora poi le posizioni di fede non trovino
argomenti, o argomenti convincenti di ragione pubblica per farsi valere
in generale come legge, esse devono disporsi alla rinuncia. Potranno
tuttavia richiedere ragionevolmente di essere riconosciute per sé, come
sfere di autonomia a favore della libertà di coscienza dei propri
aderenti, sempre che ciò non contraddica esigenze collettive
irrinunciabili (questione a sua volta da affrontare nell´ambito della
ragione pubblica). Tra le leggi che impongono e quelle che vietano vi
sono quelle che permettono (in certi casi, a certe condizioni). Le
leggi permissive, cioè le leggi di libertà (nessuno oggi pensa – in
altri momenti si è pensato anche questo – che l´eutanasia o il divorzio
possano essere imposti) sono quelle alle quali ci si rivolge per
superare lo stallo, il «punto morto» delle visioni del mondo
incompatibili che si confrontano, senza che sia possibile una «uscita»
nella ragione pubblica. Anzi, una «ragione pubblica» che incorpori, tra
i suoi principi, il rigetto della legge come violenza porta
necessariamente a dire così: nell´assenza di argomenti idonei a
«persuadere», la libertà deve prevalere. Questa è la massima della
legge di Pericle.