28 Novembre 2006
Partito democratico vero, partito nuovo. Il cuore della differenza
Autore: Franco Monaco
Fonte: Europa
E’ nostro diritto e nostro dovere dare conto delle ragioni della mozione ulivista, a prima firma Parisi, elaborata e depositata in vista dei congressi di Margherita. Non senza una premessa. Non un quadro di periferia, ma dirigenti di prima fila del partito, persone che stimo come Antonello Soro, coordinatore dell’esecutivo federale, hanno espresso sorpresa, disappunto, amarezza. Hanno giudicato “grave” la cosa. Merita riflettere.
Ciò che è regola e fisiologia in tutti i partiti, qui è giudicato patologia.
In un congresso che, da regolamento, è concepito per mozioni, si mena scandalo se qualcuno, prendendo la cosa sul serio, deposita una mozione.
Evidentemente c’è qualche cosa che non va. Quante volte, negli oltre cinque anni di vita di Margherita, abbiamo auspicato un confronto reale e aperto sanzionato da un voto? Forse, lo si è fatto una sola volta, il 20 maggio 2005, quando la maggioranza DL affossò la lista unitaria dell’Ulivo.
Un passaggio traumatico, nel quale ci si è divisi su una questione supremamente politica, tanto che Margherita ha vissuto e ancora in qualche misura vive in relazione a quel passaggio. Lacerante, ma che l’ha fatta crescere, se è vero che poi la medesima maggioranza DL non solo ci ha ripensato, ma, persino un po’ avventatamente, ha annunciato di volere di imprimere una accelerazione verso il Partito democratico.
Osservo in parentesi che, se avessimo ragionato in termini di convenienze, ci saremmo applicati alle cosiddette “quote”, a formule di garanzia di una nostra rappresentanza dentro una soluzione unitaria. Prospettiva questa decisamente più rilassante. Ma merita soprattutto riflettere sulla circostanza che un partito come Margherita, all’atto in cui dichiara di impegnarsi a dar vita a un partito democratico, deve anticiparne lo spirito e la dinamica.
Come si concilia con la pretesa di una forzosa “reductio ad unum” delle posizioni politiche? Pretesa singolare da parte di una formazione politica che ha sempre rivendicato con orgoglio i valori della libertà, del pluralismo, della democrazia (valori scolpiti persino nella sua sigla “democrazia è libertà”), anche un po’ in opposizione alla “cultura dell’egemonia”, nel mentre i DS conoscono un vivace, aspro confronto interno. Come si può pensare che un rapporto non subalterno con i DS passi attraverso l’unanimismo di Margherita, anziché attraverso la pratica testimonianza che si è un partito degno di questo nome, nel quale si discute di politica e non si fa finta di essere sempre d’accordo?
Di più: se ci si propone di dare vita con i DS e altri a un medesimo partito e ci si impegna altresì a congressi contestuali, se si va a congresso cioè con il medesimo ordine del giorno, è ragionevole, utile, doveroso, che il dibattito sia intrecciato e trasversale, che si pratichi una sorta di “Schengen” delle idee e delle posizioni politiche, una loro libera circolazione non solo nei partiti ma tra i partiti. E qui si fa chiaro il discrimine tra le due mozioni di Margherita. Lo segnalo agli amici che, in buona fede, non lo avvertono e a quelli che, più o meno sollecitati, fanno finta di non comprendere. Basta un occhio distratto ma onesto per riconoscere che una scialba ipotesi bipartitica e federativa DS-Margherita, talvolta dichiarata, più spesso dissimulata, è in campo eccome. Che essa corrisponde a un diffuso sentimento, al naturale istinto dei gruppi dirigenti, e che, in casa DS, è tematizzata apertamente, non solo dal correntone.
Ma anche in casa DL, ci siamo scordati della Chianciano Popolare?
Siamo sempre lì. Semplifico isolando due interrogativi chiave:
1) si vuole dar vita a un partito vero e a un partito nuovo o a un patto di sindacato esclusivo ed escludente tra DS e Margherita, rispettivamente connotate da vecchie identità ideologiche, che non avrebbe alcun appeal e che non porterebbe alcun valore aggiunto in termini di consenso?
2) è disponibile Margherita a mettersi essa risolutamente alla testa di tale visione più audace e innovativa del Partito democratico o va cercando rassicurazioni e garanzie in termini di quote, come ha chiesto espressamente Castagnetti a Orvieto, secondo uno schema statico che, alla rovescia, consegnerebbe Margherita a una sicura subalternità? Perché Margherita può essere competitiva solo sul piano dell’iniziativa politica, non grazie alle quote, per definizione minori.
In un passo decisivo della mozione Rutelli si mostra di condizionare la decisione della cessazione dell’attività di Margherita a un “processo affiancato e di reciproca garanzia tra i due partiti”. Non può sfuggire la circostanza che una tale formula condizionata e sospensiva, quasi inesorabilmente, alimenta incertezze e arretramenti già corposamente
operanti in casa DS. Più o meno intenzionalmente, nella migliore delle ipotesi, propizia esattamente una soluzione federativa per noi inaccettabile. Un passo indietro, non un passo avanti. Un di meno e non un di più dell’Ulivo, di cui il Partito democratico deve rappresentare piuttosto l’inveramento e lo sviluppo.
Questo il discrimine decisivo. Il resto viene di conseguenza. Penso a un processo costituente che metta in capo ai nuovi aderenti a un partito nuovo il potere di esprimere direttamente e subito leader e organi di direzione politica; penso all’impegno teso a stabilizzare bipolarismo e democrazia governante anche attraverso l’aperto sostegno al referendum elettorale, senza il quale – sarebbe ipocrita nasconderselo – non si avrà riforma che contrasti efficacemente frammentazione e instabilità; penso a una interpretazione matura ed esigente della laicità che si fa ricerca comune e sintesi dinamica da elaborare insieme e non si riduca, come talvolta in Margherita, a semplice convivenza di posizioni clericali e laiciste giustapposte e separate; penso soprattutto a un’idea del Partito democratico non già quale “grande centro moderato” dell’Unione, ma partito a vocazione maggioritaria posto al centro del centrosinistra, che si senta responsabile di una complessiva sintesi e proposta di governo. Che non coltivi e cristallizzi una divaricante polarità riformisti-radicali.
Dunque un partito aperto e inclusivo. Innanzitutto verso i cittadini che stanno fuori dai partiti (il nostro vero, nuovo, qualificante valore aggiunto), ma anche verso quei soggetti politici che, pur non figurando tra i promotori, dovessero poi riconoscersi nello statuto ideale e nel progetto politico del Partito democratico. In sintesi, un partito vero, un partito nuovo, un partito aperto, un partito democratico di nome e di fatto. Secondo la efficace espressione di Alfredo Reichelin, una grande forza nazionale che assuma la guida del cambiamento verso un’Italia più libera e più giusta. Un grande soggetto per un grande progetto che dia compimento all’Ulivo.
Esattamente l’opposto di un’impresa dal sapore burocratico intestata a partiti che evochino il passato anziché proiettarsi nel futuro.