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28 Dicembre 2005

Partito democratico: ma per nascere si deve perdere

Autore: Michele Salvati
Fonte: Corriere della Sera

I partiti politici si muovono normalmente per trascinamento inerziale, patriottismo organizzativo, spirito di auto-perpetuazione: è ingenuo attendersi trasformazioni profonde e innovazioni traumatiche se queste non sono diffusamente percepite come un modo per evitare traumi ancor più gravi. 

Questo per dire che il Partito Democratico—solennemente dichiarato come obiettivo prossimo sia dai Ds che dalla Margherita — difficilmente nascerà se non sarà costretto a nascere dalla convinzione che si tratta di uno sbocco necessario: necessario per sopravvivere e crescere, seppure in una nuova forma. Subito dopo le primarie del 16 ottobre scorso Romano Prodi aveva in mano un’arma poderosa per costringerlo a nascere: presentarsi alle elezioni come leader di una propria lista. Le resistenze dei partiti esistenti sarebbero state però fortissime e l’iniziativa molto rischiosa.

Rischiosa per Prodi e per la sua candidatura a premier. Ma soprattutto rischiosa per le sorti del centrosinistra nella sfida elettorale che incombe: il popolo che aveva incoronato Prodi nelle primarie l’aveva fatto in nome dell’unità e della concordia, non perché fondasse tra le polemiche un nuovo partito. 

L’arma di cui disponeva Prodi era dunque come una bomba atomica—inutilizzabile perché troppo pericolosa per chi poteva sganciarla — e responsabilmente non è stata sganciata: come esito concreto le primarie hanno solo indotto Rutelli ad accettare una lista unica alla Camera.

Hanno anche riavviato la discussione sul Partito democratico, ma qui di concreto
per ora c’è assai poco: la formazione di gruppi unici alla Camera e al Senato, il ruolo di Prodi nella scelta delle candidature e, in caso di vittoria, nella scelta degli indirizzi programmatici effettivi e dei ministri che dovranno attuarli, tutto sembra essere oggetto di defatiganti trattative. Di un impegno con scadenze precise per la costituzione del nuovo partito non si parla proprio: maiora premunt.

Che differenza c’è con il ’96, quando l’Ulivo vinse le elezioni? Che cosa può impedire uno sfaldamento dell’Ulivo simile a quello che si realizzò nel corso di quella legislatura? 

Nulla lo può impedire. Anzi, la più importante diversità rispetto ad allora gioca contro la prospettiva del Partito Democratico: la nuova legge elettorale. Colla vecchia, per i partiti coalizzati, era necessario scegliere insieme i candidati nei collegi uninominali, se non si voleva andare allo sbaraglio; colla nuova, la scelta comune delle candidature è necessaria solo se alcuni partiti decidono di presentare una lista unica.

Questa è però una decisione politica che, sotto l’impulso delle primarie, è stata presa oggi; domani potrebbe non essere così e non ci sarebbe alcuna penalizzazione per i singoli partiti, se così decidessero. 

Per superare questo fattore negativo, la volontà politica di costruire il Partito democratico dev’essere molto forte e indipendente dalle convenienze elettorali. 

Deve fondarsi su una visione di lungo periodo della politica italiana, sulla convinzione condivisa che tale partito risponde a esigenze di fondo della nostra democrazia, che diversi contenitori per un’unica politica riformistica hanno come giustificazione apparente steccati ideologici che han perso gran parte del loro significato e come causa reale l’attaccamento a mediocri rendite organizzative. Se i partiti sono quegli animali inerziali e conservatori che ho descritto all’inizio, dubito della capacità di convinzione di questi nobili argomenti. Certo, movimenti «per il
partito democratico » che nascono al di fuori dei partiti — come quello descritto nell’articolo di Gregorio Gitti sul Corriere di venerdì 23—possono far capire che esiste una forte domanda di unità vera, non solo di coalizioni. E nella stessa direzione possono muovere forze interne ai partiti, con maggior decisione di quanta abbiano dimostrato sinora: non tutti sono conservatori. Ma il tempo stringe e il veleno della nuova legge elettorale non ci metterà molto a diffondersi: se il Partito democratico non è cosa fatta alla fine della prossima legislatura, dubito che possa essere una proposta credibile per la successiva. Come dice una famosa vignetta di Altan, «a volte mi vengono dei pensieri che non condivido »: che non sia una batosta elettorale la condizione necessaria per smuovere i partiti
dall’inerzia? Per convincerli che il Partito democratico — morte e trasfigurazione dei vecchi partiti— è un passaggio necessario affinché una politica riformistica abbia successo?