Roma – L’Afghanistan è sempre più vicino, sta nei volti tesi dei parlamentari che chiedono notizie sulle sorti del giornalista di Repubblica rapito dai talebani, s’insinua nei capannelli dove i deputati discutono sull’offensiva avviata dalla Nato. Così, dietro l’apparente calma dell’Aula di Montecitorio, dove si prolunga il dibattito sul decreto per il rifinanziamento delle missioni militari, si celano le preoccupanti indiscrezioni che giungono dal governo, le parole pronunciate dal ministro della Difesa Parisi subito dopo un incontro con il capo di Stato Maggiore ammiraglio Di Paola: «La situazione si va facendo di ora in ora sempre più delicata».
I problemi per l’esecutivo non vengono dalla Camera, dove Prodi ha i numeri per far passare il provvedimento, giungono piuttosto dall’Afghanistan, dalle informative riservate all’attenzione di Parisi e che raccontano uno spostamento di talebani verso la zona di Herat, quella sotto il comando italiano, dove ci sono meno uomini, peraltro meno attrezzati sotto il profilo dell’armamento. Perciò è stato alzato il livello di guardia nell’area, perché è aumentato il rischio di attentati. Ma c’è di più. Anche dal Libano arrivano pessimi segnali, dovuti al pesante riarmo di Hezbollah che sta provocando le comprensibili reazioni – al momento solo diplomatiche – di Israele. Se oltre Kabul si dovesse anche incendiare Beirut, il centro-sinistra avrebbe difficoltà a gestire le due crisi senza ripercussioni su palazzo Chigi.
Ed è in questo clima che il governo si appresta oggi ad ottenere il via libera di Montecitorio, dove si susseguono colloqui riservati tra i leader della sinistra radicale e i rappresentanti dell’esecutivo. Prodi è consapevole che al Senato la strada sarà molto più accidentata, perché non potrà contare sui 158 voti che rappresentano la «maggioranza degli eletti». All’appello mancheranno Turigliatto, Rossi, e forse anche Bulgarelli, e sarà inevitabile subire dal centro-destra la richiesta di «un atto conseguente», cioè delle dimissioni. Il premier potrà contare sulla copertura istituzionale del capo dello Stato, e si appellerà – come ha già anticipato ieri il segretario del Prc Giordano – al fatto che «costituzionalmente, se un provvedimento ottiene la maggioranza, non c’è nulla a cui l’opposizione possa appigliarsi». Ma politicamente sarà un altro passaggio difficile per un governo logorato dalla crisi, minato da sospetti e incalzato dalla Cdl. Il Polo non intende far sconti al premier, «perché – diceva ieri Casini – c’è una differenza sostanziale tra chi li ha e chi non le ha», con chiaro riferimento agli attributi e all'(ex) amico Follini, trasmigrato nell’Unione. A Casini questa storia delle maggioranze variabili di Amato non piace, «non mi faccio prendere in giro». Se per questo, nemmeno il Prc vuol farsi irretire dalla proposta del titolare dell’Interno, «perché non vorrei – spiegava ieri ai suoi Giordano – che il giochino servisse a far passare dell’altro. Chessò, la riforma delle pensioni. In quel caso…». In quel caso andrebbe in crisi il governo. Rifondazione pretende chiarezza, impegnata com’è a fronteggiare le defezioni nel partito sulle missioni militari.
Il sostegno al governo sul decreto non mancherà, ma il nervosismo nelle file dei deputati è ormai evidente, ed è determinato anche dalla spinta della base. È bastata ieri la vignetta di Vauro sul Manifesto, quella che mostra un omino con le mani insanguinate dopo le stragi in Afghanistan, per mandare su tutte le furie il rifondarolo Mantovani: «Quella roba lì è una mascalzonata». Per dare una mano al Prc e all’intera sinistra radicale, Parisi ha in serbo una mossa che sta mettendo a punto in queste ore: un incontro con i leader dei movimenti pacifisti per aprire un tavolo di dialogo, per spiegare gli obiettivi che muovono la presenza dei militari italiani nelle aree di crisi, e anche per allentare la stretta sui parlamentari di riferimento che sono sotto pressione. Certo sarà difficile parlare di pace al cospetto della guerra.