Roma – «Purtroppo sino a quando tutto
non è concluso, nulla è concluso». Al secondo piano di piazza Santi Apostoli,
dove l’Ulivo ha messo radici, la tv rimanda in diretta le immagini del
congresso Ds, l’ultimo e il più sofferto, ma le ovazioni dei delegati e le
lacrime trattenute di Piero Fassino non sembrano commuovere il profeta
dell’unità riformatrice.
«Il passaggio è storico» riconosce Arturo Parisi,
eppure quel sorriso triste, che sempre sorprende chi si aspetti da lui
l’euforia del vincitore, dice che quella «gara a chi fa prima» scattata tra i
leader non scalda e anzi preoccupa il più coerente dei padri fondatori.
«Perché non ho entusiasmo? Perché mi ricordo come ci si è arrivati e perché
sono contrario a un semplice matrimonio tra Ds e Margherita».
Incontentabile, ma non per questo rinuncia a consegnare alla storia la sua
parte di merito: «Se fossi tentato dal
narcisismo e dal trionfalismo ne avrei
da vendere, ma cadrei in una tentazione piccolissima…».
Una
grandissima, di tentazione, il sociologo prestato alla politica la
va coltivando da qualche giorno, da quando cioè i papabili hanno iniziato
a correre per guidare il Pd. Qualora alle primarie dovesse candidarsi un
solo aspirane, lui che si vanta di essere «enormemente più giovane in
politica dei più giovani candidati leader» sarebbe il secondo. E non certo
per l’ambizione di conseguire una carica. «La vuole una notizia? Se in campo
ci fosse un solo nome scenderei anch’io, fosse solo per aiutare il progetto
e
rappresentare quelle verità che non hanno il coraggio di venire
allo scoperto».
La verità politica è per lui un’autentica ossessione,
sin da quando, marzo 2002, Parisi abbandonò il congresso fondativo della
Margherita a Parma contro «spartizioni e vecchie pratiche». Nel nome della
verità, autunno 2007, ha presentato una mozione alternativa a quella di
Francesco Rutelli, poi l’ha ritirata e se n’è pentito: «E stato un errore». E
adesso al presidente riconosce il «ruolo decisivo nella realizzazione del
progetto della Margherita, che forse senza di lui sarebbe stata impossibile»,
ma gli imputa gravi «limiti» nella gestione del partito. «Non ha corrisposto
agli obiettivi che al momento della fondazione ci eravamo proposti. Sono
mancati convivenza, democrazia e legalità e il confronto reale delle verità».
Come spiegare altrimenti quegli «improvvisi accordi» dopo le «risse»tra
correnti, quei «congressi finalizzati alla conta e alla spartizione del
potere»? E se non lo preoccupa il ritrovato orgoglio ex dicci dei Popolari,
«E’ soltanto perché la Margherita si scioglie».
Oggi a Cinecittà ci
sarà anche lui. Non da capo corrente, avendo sciolto anzitempo quel che dei
Democratici restava nella Margherita, ma da semplice cittadino, da
«impaziente» dotato di pazienza politica pressoché infinita, tanto da
immaginare che il cammino verso un bipolarismo Compiuto non avrà fine prima
del 2019: «Il processo è in corso. E per colpa di una sciagurata legge
elettorale, che è di Casini più che di Calderoli, il rischio di
regressione è
altissimo» . Traguardo 2008, indica Fassino. E lui, a costo di passare per
«l’eterno scontento», alza l’asticella al 2009. «Deve essere un vero partito,
un signor partito che sia al servizio dell’unità dell’Unione e mai uno
strumento nelle mani del leader».
Se deve raccontare l’ultimo decennio
dice che «sono stati anni duri» in cui ha dato «molti calci» a fin di bene,
se deve descriversi lo fa con un’immagine orgogliosa: «Io corro e gli altri
mi raggiungono». Due anni fa, nel quartier generale di Prodi, si parlava
della necessità di un partito unitario e a un tratto Fassino disse «bene, ma
che foto mettiamo nelle sezioni?». E Parisi, che da allora non ha cambiato
idea: «Quelle dei padri costituenti». Il dibattito sul Pantheon per lui
finisce qui, perché «i riferimenti comuni non si decidono a tavolino
guardando al passato, ma si troveranno strada facendo». La strada è ancora
lunga, l’approdo internazionale è incerto. «Escludo che Fassino possa aver
detto “o nel Pse o niente”, la collocazione la decideremo insieme». E il
leader chi sarà, Rutelli, Fassino, Veltroni? «Un leader il Pd ce l’ha ed è il
suo fondatore, Romano Prodi. E poi, che il leader coincida o no con il
premier, dovrà comportarsi come se lo fosse».