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31 Maggio 2005

Padoa-Schioppa: ma l’euro non è a rischio

Autore: Danilo Taino
Fonte: Corriere della Sera

FRANCOFORTE – Le ratifiche al trattato costituzionale europeo «si pesano, non si contano», dice Tommaso Padoa-Schioppa: il voto francese di domenica scorsa, dunque, avrà l’impatto più serio che un’espressione referendaria potesse avere sulla Ue.

Non che la costruzione comunitaria stia per crollare. E nemmeno che l’euro sia a rischio. «I mercati – sostiene il membro uscente del consiglio esecutivo della Banca centrale europea (Bce) – sono bestie affamate di notizie e si nutrono anche di quelle irrilevanti.


C’è dunque da aspettarsi che si nutrano di una notizia rilevante come questa. Ma escludo che ciò possa significare una modifica strutturale alla condizione dell’euro». Piuttosto, Parigi – da decenni il motore dell’Europa – dovrà cambiare, imparare a contare meno sul suo potere di veto e di più sulla capacità di costruire alleanze continentali se vorrà tornare a svolgere un ruolo propulsore: e anche gli altri 24 Paesi dovranno sapere gestire una situazione estremamente delicata.


In questa intervista, alla vigilia della sua uscita dalla Bce per scadenza di mandato (oggi è il suo ultimo giorno a Francoforte), Padoa-Schioppa, 64 anni, parla di Francia e del futuro dell’Europa; ma anche della banca che sta al cuore dell’euro e della quale ha accompagnato la nascita e i primi passi; del momento difficile ma per niente disperato dell’economia italiana e della necessità che la classe dirigente del Paese ritrovi una direzione e una capacità di guida; dell’improbabilità di crisi finanziarie nell’area euro; dei suoi piani futuri, ora che sta per rientrare a Roma.


E’ una crisi, questa dell’Europa?
«Sicuramente è una crisi – risponde Padoa-Schioppa – per il Paese in cui avviene, per l’ampiezza del divario tra Sì e No, per l’assenza di indicazioni chiare che la vittoria del No contiene. La Costituzione, per il 90 riprende i trattati esistenti e per il 10 innova: è stato un No al 100 o al 10 C’è un’ambiguità di significato. In più, il No è una coalizione tra chi vuole più Europa e più internazionalismo e chi vuole più protezionismo e nazionalismi. Aggiungerei che, quando in Europa l’estrema destra e l’estrema sinistra si alleano, è sempre molto pericoloso. E’ un momento di crisi, non c’è dubbio».


Siamo alla fine del processo di espansione della Ue?

«Le ratifiche si pesano, non si contano e la non ratifica francese ha un peso superiore a quello che avrebbe avuto in qualsiasi altro Paese. Detto questo, credo che il bisogno di Europa non diminuisca ma aumenti. Forse, alla fine, il No sarà servito ad avere più Europa, innanzitutto a usare meglio quel 90 di norme che non sono state bocciate».


A questo punto, cosa si fa?

«Il processo di ratifica deve andare avanti. Si vedrà alla fine quale sarà la situazione, sapendo che riaprire un negoziato internazionale sarebbe difficilissimo e che nei Paesi in cui, in passato, un referendum ha dato esito negativo si è rivotato sullo stesso trattato: in Irlanda, in Danimarca. E’ un passaggio delicato, non si devono fare sbagli: come quando si sale in montagna, occorre trovare la via giusta per continuare il cammino. E non dovranno pensarci solo i francesi: molto dipenderà da come gli altri Paesi sapranno interagire con la Francia».


Dopo la vicenda del Patto di Stabilità, riscritto soprattutto per volontà di Francia, Germania e Italia, non si rischia anche una frattura tra Paesi grandi e Paesi piccoli della Ue?

«La posizione della Bce era che fosse meglio non riscriverlo. Io ho contribuito a prenderla e la condivido al cento per cento. Ora che le modifiche sono state definite, è giusto dire che il Patto è stato parzialmente allentato ma resta in piedi. E’ falso decretarne la morte: le ragioni della disciplina di bilancio si sono imposte anche su chi avrebbe voluto liberarsene, a Parigi e a Berlino. Certo, la battaglia è costata molto in termini di credibilità a Francia e Germania. Come italiano, non posso dimenticare che il Patto fu inventato per mettere la briglia all’Italia. Poi si è data l’impressione che, nel momento in cui non andava più bene ai grandi, lo si poteva svuotare».


Veniamo alla Bce. Che bilancio ne fa, dopo sette anni al vertice?

«Straordinariamente positivo. La cosa più notevole è stata che dal 4 gennaio 1999, quando la Banca è diventata operativa, nessuno, ma proprio nessuno, ha messo in dubbio che l’euro fosse diventato la moneta degli europei, sebbene esistessero ancora le banconote e le monete nazionali. Il successo dell’euro è innanzitutto questo».


Come sta cambiando il mondo delle banche centrali?

«Nei miei anni da banchiere centrale ho visto trasformazioni profonde. Alla fine degli Anni Sessanta, la moneta aveva due ancoraggi, l’oro attraverso il dollaro e lo Stato. Da allora, ho assistito al suo distacco prima dall’oro/dollaro all’inizio degli Anni Settanta e poi dallo Stato negli Anni Novanta. E in più è arrivata la tecnologia che ha cambiato molto: si pensi che la Banca d’Inghilterra oggi non ha più filiali e meno di duemila dipendenti. E nessuno può dire che la Banca d’Inghilterra sia meno capace di fare il suo lavoro».


A proposito: non tutte le banche centrali dimagriscono.

«No, sono cambiamenti che alcuni hanno fatto, altri no. Ancora nel 2003, la Banca di Francia, per esempio, aveva oltre 200 filiali e oltre 15 mila dipendenti. Ma qui l’euro non c’entra: si tratta di trasformazioni tecnologiche enormi. L’euro c’entra in altro modo: la ragione d’essere delle banche centrali, che è fare la politica monetaria e governare la moneta, dall’inizio del 1999 è una ragione europea, non è più nazionale. La morfologia delle banche nazionali, però, finora è rimasta la stessa».


Servirebbe più efficienza?

«Sì, anche se la banca centrale dell’euro è l’Eurosistema. E’ questo il sistema che va reso più razionale, per esempio nella stampa delle banconote e nella rappresentanza internazionale. Ma nell’organo che decide siedono, oltre ai sei membri del board, i 12 governatori nazionali: occorre dunque trovare un accordo».


Perché la Bce non tocca i tassi d’interesse da tempo? Una forma di benign neglect?

«La cosa che conta oggi per l’economia è che i tassi sono eccezionalmente bassi, non che sono fermi. Più bassi di quanto lo siano stati in 50 o 60 anni. Abbiamo stabilito questo livello due anni fa e, da allora, non ci sono state ragioni per cambiarli. Ma non è una scelta di immobilismo, anche se la Bce non ama l’attivismo».


Alcuni, viste anche le turbolenze causate dal voto francese, parlano di possibili rotture nell’Unione monetaria. E il Financial Times sostiene che i mercati dovrebbero considerare la possibilità di crisi finanziarie di un Paese membro dell’euro, ad esempio l’Italia.

«Su queste questioni, il Financial Times ha un suo pregiudizio. Non c’è, nella realtà, assolutamente nulla che appartenga a questo genere di elucubrazioni. Il modo in cui i mercati quotano il debito dei diversi Paesi Ue non si discosta da quello in cui quotano il debito degli Stati e delle province di altre entità federali, come Canada, Australia, Stati Uniti».


Le mancherà, da domani, la Bce?

«Sono stati sette anni affascinanti, di costruzione di un’istituzione nuova, di progetti in cui ho creduto, di ambiente di lavoro giovane e motivato, multinazionale, multiculturale. E di ottimi rapporti personali: con l’attuale presidente, Jean-Claude Trichet, abituato a una gestione molto attiva, simile alla mia impostazione di lavoro; ma anche con il primo presidente, Wim Duisenberg, più distaccato e selettivo ma di notevole carisma».


Passiamo all’Italia. Come giudica la situazione finanziaria?

«Direi che, quali che siano gli indirizzi di governo e di politica economica, il debito pubblico con cui siamo entrati nell’euro resta un condizionamento fondamentale. Il Patto di stabilità esiste ancora e dobbiamo sapere che il nostro debito non dispone né i mercati né gli altri Paesi a particolare indulgenza».


L’economia, la recessione?

«Il dato immediato è che l’economia italiana, assieme a quella tedesca, è stata in questi anni quella con la crescita più bassa. Nel caso italiano, però, ciò non è solo un’espressione di fattori storici profondi, come il declino demografico: è anche l’espressione di una grave perdita di competitività. Se guardiamo alla dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto, vediamo che la competitività dell’industria manifatturiera è peggiorata di oltre 18 punti percentuali rispetto a quella tedesca negli ultimi sei anni».


E’ la questione del declino economico.

«Io parlerei di rischio di declino economico. La bassa crescita tedesca è dipesa dalla domanda interna debole, quella italiana dalla perdita di competitività esterna. Questo è un dato preoccupante. La competitività è questione di dinamica dei costi, di innovazione, di produttività: dipende da investimenti nuovi, dal rafforzamento in settori a tecnologia avanzata e

anche da forti ridimensionamenti dei costi».


Da dove viene questo rischio di declino?

«Non c’è nessuna ragione perché l’Italia si senta condannata al declino. Ed è anche vero che i livelli di vita italiani sono tra i più alti del mondo: non è con il pauperismo che si carica la molla della volontà di crescere; casomai è con l’ambizione all’eccellenza. Ecco: io credo che sia proprio questione di ambizione e di fiducia che mancano; di successi individuali in campo economico che ci sono ma non vengono abbastanza portati ad esempio. Come credo che uno dei fatti più gravi sia stata la retorica del piccolo è bello: piccolo è bellissimo ma soltanto piccolo è pessimo. Come conseguenza di tale retorica, si sono attrezzati una cultura, una legislazione, un sistema di relazioni sindacali, un regime di tassazione che di fatto hanno frenato la crescita verso il grande».


Recuperare sarà un’impresa storica?

«In pochi anni la competitività si può recuperare. Bisogna investire, incrementare la produttività, controllare il costo del lavoro. Tutto questo si può fare perfettamente in un regime di moneta unica. L’euro ha dato all’Europa e all’Italia la stabilità monetaria e, in buona misura, finanziaria. Non è la stessa cosa della crescita, ma nessuna esperienza storica ci indica che per crescere ci vuole instabilità. Negli Anni Cinquanta, l’Italia aveva stabilità monetaria e finanziaria addirittura superiore a quella della Germania; e furono anni di crescita a tassi del 5. Il recupero è possibile».


Chi è responsabile, in Italia, della poca concorrenza, delle rigidità, dei privilegi che limitano la crescita?

«In un certo qual modo la classe dirigente. C’è un atteggiamento culturale, un certo modo di arrendersi agli interessi organizzati trascurando gli interessi diffusi. Si pensi agli ordini professionali o a certe categorie sindacali. E’ un problema di atteggiamenti della classe dirigente ed è malsano gettare tutte le colpe sulla classe politica».


Non è una classe dirigente che punta sulla meritocrazia.

«E proprio questa, la meritocrazia, invece, è condizione essenziale per una società dinamica. E il primo luogo della meritocrazia è la scuola, anche nella trasmissione di valori: essere stati indulgenti con quegli studenti del liceo Parini che hanno allagato la scuola ha fatto sì che allagare le scuole sia ora diventato uno sport nazionale».


Se il problema è la classe dirigente, come se ne costruisce una nuova?

«La classe dirigente non si sostituisce come un governo. Persino nel 1950, la classe dirigente italiana era in larga parte la stessa del 1940. Si tratta di alcune decine di migliaia di persone sparse per il Paese che sono nella posizione di irradiare qualcosa attorno a se stesse. Sono un’infrastruttura essenziale del Paese che sedimenta nel tempo e agisce come

tessuto connettivo della società».


Ma se la classe dirigente non funziona?

«Talvolta, gli individui che fanno parte della classe dirigente si sentono sfiduciati o abdicano alla propria funzione. Occorre che ritrovino un proposito e che esprimano la propria capacità di guida. Occorre convincerli che si può essere ambiziosi».


E’ un po’ quello che lei ha definito patriottismo economico. Ma in Italia si fatica ad accordarsi su cos’è?

«La partecipazione a un’entità più ampia, come può essere la partecipazione all’Europa, non fa venir meno le caratteristiche specifiche né deve fare venire meno l’attaccamento al proprio Paese, il patriottismo. Cambiano le armi vincenti in questa contesa, non cambia lo spirito di contesa. Oggi servono strumenti aperti, di eccellenza, anziché di chiusura. Ed è bene avere presente che, anche all’interno di una stessa patria, gli interessi non coincidono: chi oggi può comprare un prodotto cinese che gli permette di risparmiare molto, oppure può comprare un volo per Londra a un decimo delle tariffe normali, o comprarsi un mobile Ikea ha un miglioramento delle condizioni di vita; è però vero che tutto ciò è un problema per il pilota e la hostess Alitalia e una sfida per il mobiliere e il tessile. Ma chiariscono che chi si appropria dell’espressione interesse nazionale per difendere un interesse molto particolare (quello del produttore) non aiuta il Paese a vivere in modo costruttivo questa trasformazione».


In questa logica, l’Italia rischia di apparire protezionista quando difende l’italianità delle sue banche?

«Sì. Anche se nessuno è santo».


Lei sta per tornare in Italia dopo sette anni a Francoforte. Cosa farà?

«Non ho un’istituzione che mi attende. Sono stato nelle banche centrali da quando avevo 27 anni. Ora intendo continuare con la vita attiva ma penso serva una fase di distacco dall’attività che ho svolto finora».


In politica?

«Servire l’interesse pubblico nella politica e nella funzione pubblica sono due cose profondamente diverse. Come molti della mia generazione, sono stato interessato alla politica sin da ragazzo: ma amare la musica non significa saper suonare uno strumento. Dubito di averne sia il talento che la disponibilità. Tra l’altro, credo anche che un funzionario debba riconoscere la superiorità della politica: è la più rischiosa, spesso l’unica professione in cui si paga veramente di persona».