Al primo interrogatorio, il pentito ha messo sul tavolo i nomi. «Sulla morte del dottor Francesco Fortugno, sono stati Ritorto Salvatore e Audino Domenico», ha detto ai magistrati il 6 dicembre scorso. «Il Ritorto è quello che ha sparato, incappucciato, tutto vestito di nero con berretto e cappuccio». Poi ha proseguito: «Su questo vi posso fare un po’ di luce, perché il dottore Fortugno era sorvegliato da un po’… Lo pattugliavano un po’ sotto casa e poi… Io so questo fatto da Dessì Carmelo, di solito era lui ad accompagnare il Ritorto. Lo portava sotto casa e poi se ne andava».
«Da quanto tempo?», chiede il pubblico ministero.
«Venti giorni, poteva essere», risponde il pentito, al secolo Bruno Piccolo da Locri, classe 1978. Il magistrato insiste: «Ma perché lo hanno ammazzato?». La risposta è ancora coperta dal segreto istruttorio: «Omissis», si legge nelle trascrizioni inserite negli ordini d’arresto. Dunque il piccolo ‘ndranghetista diventato grande accusatore nell’omicidio più «eccellente» commesso in Calabria una risposta l’ha data. Ma sarebbe solo un accenno, poco più di una deduzione personale. Forse relativa al settore della Sanità locale e degli appalti, che al momento non ha trovato i necessari riscontri. Ma quello degli affari intorno agli ospedali e alle cure mediche pubbliche resta uno dei filoni principali dell’indagine sul movente e i mandanti del delitto.
Nel verbale del giorno dopo il magistrato chiede al pentito: «Perché è stato ucciso Fortugno? Chi ha chiesto a Ritorto di ammazzarlo?». Piccolo risponde: «Non lo so chi ha chiesto a Ritorto di ammazzare Fortugno, però so da Dessì Carmelo che… Fortugno interessava a Ritorto». Se ha detto la verità, e se è vero quello che gli hanno raccontato, i segreti dell’eliminazione del vicepresidente del Consiglio regionale calabrese, esponente di spicco della Margherita locale, li conosce l’uomo che gli avrebbe sparato. Quel Salvatore Ritorto, appena ventisettenne, che potrebbe rappresentare il livello successivo di un’inchiesta partita «dal basso», cioè dalla manovalanza criminale del luogo in cui è stato commesso l’omicidio. E che per ora è appena al piano terra della ricostruzione: ci sono i nomi di chi — si dice — ha ucciso Fortugno; mancano quelli di chi ne ha ordinato la morte, e manca il perché.
La vittima era un politico, ha ripetuto ieri il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, «dunque l’ipotesi della matrice politica è pienamente attendibile, anche se non è l’unica supposizione che possiamo fare».
Proprio Grasso, pochi giorni dopo l’omicidio, in una riunione con inquirenti e investigatori suggerì di partire dal basso: cercare di stringere su boss e «soldati» della famiglia di ‘ndrangheta che comanda a Locri, trovare le prove per arrestare qualcuno e vedere se da lì poteva scaturire qualche «pentimento». È quel che è accaduto con le intercettazioni della polizia, quattro catture e poi una collaborazione, anche se a parlare è stato l’elemento forse più debole del gruppo.
Francesco Fortugno fu ucciso nel giorno delle «primarie» dell’Ulivo, all’uscita del seggio elettorale: circostanza che fu letta come un messaggio, un chiaro segnale della valenza politica dei cinque proiettili sparati contro l’esponente della Margherita che pensava di diventare assessore alla Sanità ed era rimasto deluso dalla mancata nomina. Ma nelle testimonianze del pentito questa ipotesi perde almeno un po’ del suo valore. La «scenografia del delitto» non fu scelta appositamente; anzi, doveva essere un’altra. «Li ho sentiti parlare una volta mentre mi aggiungevo sull’uscio del bar — dice Piccolo —, c’erano Ritorto, Novella Domenico e Audino Domenico che parlavano tra di loro, e io ho sentito Ritorto che diceva agli altri due che non riusciva mai a beccare il dottore sotto casa, in piazza Tribunale».
«Diceva proprio “beccare”?», chiede il pm, e Piccolo conferma: «Sì, che non riusciva mai a beccarlo sotto casa». Gli appostamenti, nella ricostruzione del pentito, sono durati quasi un mese; Fortugno doveva morire prima del 16 ottobre. In un altro interrogatorio Piccolo spiega che altri agguati sono falliti perché Fortugno «era in compagnia di qualche familiare, o perché non arrivava mai durante l’orario che loro avevano preparato il fatto».
Secondo questa versione la simbologia dell’assassinio al seggio elettorale verrebbe a cadere, portandosi dietro un pezzo del «movente politico».
Il che non significa che sia caduto del tutto, ma mancano ancora troppi elementi per disegnarlo. Il primo pentito non è arrivato a fornirli, ora se ne auspicano altri. Le microspie, le telecamere e i pedinamenti possono fornire spunti ed elementi da sviluppare, oppure riscontri, ma gli investigatori antimafia sanno che niente è più utile di una «voce di dentro» per svelare i segreti delle cosche. Anche se la prima reazione di Ritorto, il presunto killer che dovrebbe sapere di più sui mandanti dell’omicidio Fortugno, al momento dell’arresto è stata di tutt’altro tono: «Col rito abbreviato mi possono dare trent’anni… E se mi tengo in forma, al momento di uscire sarò ancora un bell’uomo».