ROMA – I detrattori di Arturo Parisi la considerano una sua mania. Ma è proprio la smodata passione per la forza simbolica di parole e date, che fa ricordare a Parisi una ricorrenza: «Esattamente otto anni fa, in queste ore, cadde il governo Prodi e non ci lasciammo bene. Anzi direi che molti di quelli che l’altro giorno erano al seminario di Orvieto si lasciarono decisamente male e proprio in nome dell’Ulivo. Dopo Orvieto si può dire invece che ci siamo ritrovati in nome dell’Ulivo. Già da solo questo è la prova della enormità del passo fatto in questi giorni sulla strada del Partito democratico. Certo, passando dalla descrizione fredda al sentimento, tentato dall’ansia mi verrebbe da dire che non riesco a crederci…».
E’ il solito Parisi. Si compiace, giocando con le parole. Intende dire che è felice per quel che è uscito dal seminario umbro, ma al tempo stesso non crede che sia tutto autentico l’oro che brilla. E’ così? «Ho speso tanti anni lungo questo cammino, ricordo la fatica per ognuno dei passi in avanti, nulla ci è stato regalato, nulla ci sarà regalato. Ma ora tornare indietro mi sembra proprio difficile».
Da quando aiutò Mario Segni a lanciare i referendum che terremotarono la Prima Repubblica, il professor Arturo Parisi ha due fissazioni: la democrazia bipolare e il partito democratico. L’Ulivo, il “mito” del Prodi tradito dai suoi alleati, i Democratici. La Margherita, le Primarie sono tutte sue invenzioni, ma ora che fa il ministro della Difesa a tempo pieno, Parisi si dedica raramente alle sue antiche passioni. Ma al seminario di Orvieto – dove ha preferito non intervenire – accanto alla festa, ha visto i sintomi di una falsa partenza. Chi era ad Orvieto ha notato che lo storico via libera al partito democratico si è consumato senza pathos. Dice Parisi: «Verissimo. La cifra celebrativa, ripetitiva e quasi retorica di molti interventi rischiava di far fuori assieme al pathos anche la ragione. É per questo che sono grato a Massimo D’Alema che ha reintrodotto invece la categoria della realtà e quella della verità. Richiamandoci alla complessità del cammino che ci aspetta. L’avversario peggiore sarebbe infatti di certo l’eccesso di finzione».
Ad Orvieto il vicepresidente del Consiglio ha dato voce ai gruppi dirigenti di Ds e Margherita, lasciando intendere che – almeno in partenza – la plancia del nuovo partito dovrà essere formata tenendo conto delle “quote” precedenti. Di fatto stoppando l’idea che i non iscritti ai partiti possano partecipare alla fase costituente secondo il principio «una testa, un voto». Ma l’impossibilità per un cittadino qualunque di iscriversi e contare non è una pretesa un po’ curiosa? «Non curiosa, curiosissima! Nella relazione di Salvatore Vassallo ad Orvieto si faceva notare che su 100 elettori dell’Ulivo solo sei sono iscritti nelle liste dei partiti, solo 3 hanno partecipato almeno una volta in un anno ad una iniziativa di partito e solo uno su cento è riconducibile alla categoria del militante. Come dimenticare allora il 23 per cento di elettori che andò a votare alle Primarie? Bene nella differenza tra l’1 per cento che milita e quel 23% c’è il bacino nel quale recuperare l’entusiasmo e il pathos di quei cittadini attivi che non riescono a “metter becco” nella vita pubblica.».
E anche se impedire per almeno due anni l’iscrizione attiva al “pd” rischia di configurarsi come una piccola sospensione di democrazia, Parisi non sta al gioco del bastian contrario: «Sospensione? Assolutamente no, direi che avremmo un potenziale di democrazia sprecata. Certo, riconosco che l’apertura improvvisa di paratie in acque un po’ stagnanti può essere causa di disordine. Ma correre il rischio ne vale la pena». Quel che i tifosi delle “porte aperte” non riescono ad ammettere è che Ds e Margherita si preparano a conferire al nuovo partito strutture, dirigenti cresciuti in anni e anni ed è naturale che chiedano garanzie. Ma forti di un 1 milione e duecentomila iscritti come possono temere l’irruzione di alcune migliaia di incontrollabili? «I nomi iscritti negli elenchi dei partiti ammontano a quella cifra, ma solo fino a quando la democrazia vive di elenchi si può spiegare il terrore suscitato dall’irruzione della partecipazione. Ma è un altro rischio che vale la pena di correre. Così come un altro principio da sancire è la contendibilità della leadership». Da decenni i partiti vivono un declino e non sono esempi di democrazia, ma può un partito che si definisce democratico nascere con un deficit democratico? «Come non riconoscere che il primo connotato di un Partito Democratico è appunto quello di essere un partito democratico. Lo riconosco: può sembrare qualunquistico e provocatorio e in parte lo è. Ma certo se non parte democratico, è difficile che il nuovo partito arrivi democratico».
Dunque, una volta ancora Parisi “contro” D’Alema. Negli ultimi 11 anni la dialettica – ma anche i successi – del centrosinistra sono ruotati essenzialmente attorno a due concezioni diverse della politica. Ci risiamo? «E’ vero – dice Parisi – ci siamo incontrati e qualche volta scontrati. Limpidamente D’Alema è per il primato delle strutture partitiche; io sono per il primato dei processi sociali. Tra il 1995 e il 1998 c’è stata un’asimmetria di ruoli: io da consigliere di Prodi, mi potevo permettere il lusso di osservare senza essere osservato. Ma lui aveva registrato la mia presenza, e – ancorché scherzosamente – aveva provato a neutralizzarmi nella categoria di Hailé Selassié. Ma da allora troppo tempo è passato. Son sicuro tuttavia che il nostro confronto continuerà. Da Orvieto ci siamo portati i compiti a casa!».