PECHINO – «La Cina è il Nuovo mondo, la grande sfida da raccogliere per rilanciare il nostro sviluppo economico. Purtroppo da questa sfida l´Italia è assente, continua a perdere terreno drammaticamente. Quando misuro i ritardi che stiamo accumulando qui in Asia, mi convinco sempre più che abbiamo bisogno di rimedi radicali. E quindi è indispensabile concentrare tutta l´energia politica su questi rimedi».
Romano Prodi parla in una pausa del vertice Cina-Unione europea, in corso da tre giorni a Pechino. E´ un seminario a porte chiuse, ma è impossibile isolare queste riflessioni dal rumore di fondo della politica italiana.
Professor Prodi, quell´energia politica che lei invoca presuppone un governo forte. Lei lo avrà? Rutelli ha di nuovo attaccato l´idea della lista unica. La coalizione del centrosinistra è attraversata dai dissensi. A lei interessa fare il presidente del Consiglio comunque? Oppure rifiuta lo scenario del Re Travicello, alla guida di un governo minato fin dalla partenza dalle divisioni?
«Io dico chiaro che se il centrosinistra vince non sono interessato a un governo paralizzato dai problemi degli equilibri interni, impegnato in estenuanti mediazioni nella sua coalizione: assomiglierebbe allo spettacolo che sta dando al paese Berlusconi. Ed è altrettanto sbagliato pensare di affrontare questi problemi senza la spinta che la lista dell´Ulivo ha dato nei mesi scorsi all´intera Unione. Il mondo ci obbliga a fare un salto in avanti, e questo esige una rottura, un rinnovamento radicale con la cultura e il costume politico. Negli ultimi anni l´Italia ha rifiutato le sfide, ha rinviato i problemi, e così facendo siamo arretrati, siamo scesi sempre più in basso. Di fronte a una crisi così profonda è ridicolo perder tempo a discutere su governi balneari, governi tecnici, istituzionali, provvisori. A questo punto nessuno può permettersi di pensare a un governicchio, a una coalizione che regga in piedi sulla base di accordi di spartizione».
In questo summit con i dirigenti cinesi, insieme a inglesi, tedeschi, francesi, avete discusso di una «partnership globale», il futuro delle relazioni tra la Cina e l´Europa. Il termine "partner" non è quello più usato in Italia quando si parla della Cina. Invece prevalgono la paura del made in China, l´ossessione dell´invasione, la richiesta di alzare il ponte levatoio. Vista da Pechino, quell´Italia che invoca protezionismo è l´altra faccia dell´Italia che il Financial Times definisce «il malato d´Europa»: l´unica nazione entrata in recessione.
«E´ un paese che si sta abituando a perdere, un paese le cui classi dirigenti sembrano sempre in cerca di alibi per le prossime sconfitte. Qui in Cina c´è veramente il mondo del futuro, con i suoi pregi, i difetti, gli eccessi. Un continente che ha arretratezze profonde da superare ma ha anche una politica economica e industriale forte, l´accesso a tecnologie sempre più avanzate, e con il suo dinamismo sta trainando l´Asia intera, India inclusa. Scopro di essere l´unico italiano presente a questo vertice di Pechino. Dietro la disattenzione della classe politica ci sono ritardi e assenze di tutto il sistema».
Nella classifica delle esportazioni e degli investimenti in Cina siamo superati non solo da francesi, tedeschi, inglesi: perfino dagli olandesi. «E arrivando negli aeroporti cinesi vedo atterrare aerei non solo di Air France, Lufthansa e British Airways, ma anche di compagnie europee più piccole come Finnair e Austrian. Solo l´Alitalia non vola più in Cina: proprio quando i manager italiani avrebbero bisogno di arrivare qui più velocemente, proprio quando si apre il business del turismo e dovremmo trasportare un immenso flusso di visitatori cinesi in Italia. Non abbiamo neppure un numero di funzionari sufficienti nei consolati per rilasciare i visti ai turisti cinesi che ne hanno diritto. Siamo assenti col sistema universitario, che non figura nei grandi programmi di cooperazione scientifica con la Cina. Le nostre banche qui hanno una presenza sparuta. Vent´anni fa quando venivo qui noi costruivamo le centrali elettriche con l´Ansaldo, le acciaierie con Italiampianti. Adesso le costruiscono americani e giapponesi, francesi e tedeschi».
Qualche punta di eccellenza la nostra media industria ce l´ha ancora. I cinesi ci invadono di scarpe e abbigliamento ma noi qui siamo i primi esportatori di macchinari per l´industria tessile. Tra breve sarà inaugurato uno degli stabilimenti di macchine tessili più avanzati del mondo, a Shanghai: da un gruppo italiano.
«Per fortuna gli italiani non dormono, ci sono imprenditori piccoli e medi pieni di talento e di coraggio, che stanno facendo del loro meglio. Ma dobbiamo aiutarli a fare sistema, per reggere il confronto con paesi che hanno grandi multinazionali, come i tedeschi e i francesi. Invece qui arrivano singole Regioni italiane ad aprire uffici di rappresentanza, ciascuna per sé. Dobbiamo smetterla di ripetere che piccolo è bello. E´ pericolosa anche l´illusione che l´Italia possa avere un futuro solo valorizzando il passato. Cioè trasformandosi in una specie di grande museo di bellezze artistiche e naturali per i turisti stranieri. Quella è una nostra vocazione importante, da sostenere, ma non può bastare a creare lavoro per un paese di 57 milioni di abitanti. Abbiamo ancora delle risorse industriali in settori sofisticati come la meccanica, l´elettronica dei sistemi, l´automazione: bisogna sostenere la loro proiezione sui mercati del futuro».
La questione del dumping sociale non si può eludere, di fronte alla piaga del lavoro minorile in Cina, usato anche da multinazionali occidentali. Guardando alle condizioni dei bambini sfruttati nelle fabbriche-lager, non si può negare che nell´invasione del made in China ci siano anche elementi di concorrenza sleale.
«Le rivelazioni su quei bambini sono spaventose. Bisogna vedere il problema con lucidità: se non lavorassero per delle multinazionali forse starebbero ancora peggio, subirebbero altre forme di sfruttamento e di povertà. La risposta giusta è premere sulle multinazionali, e sul governo cinese, perché assicurino il rispetto delle leggi sul lavoro e dei diritti umani. Il progresso economico, sociale e politico può curare questi mali, il protezionismo no».
Si rafforzano i segnali di tensione commerciale tra l´Occidente e la Cina. I più duri sono gli americani: Bush ha reintrodotto delle quote sull´import tessile cinese, e ha lanciato un ultimatum a Pechino perché rivaluti la moneta. L´Europa è più cauta ma potrebbe prendere provvedimenti presto. Qual è la soluzione?
«Guai a gettare la Cina in una crisi economica, di cui ci pentiremmo tutti. Bisogna fare in modo che l´impatto del made in China sul nostro tessuto produttivo e sociale non sia devastante, evitando però la catastrofe di una guerra commerciale da cui usciremmo rovinati: oggi il mondo è trainato dalla locomotiva dello sviluppo asiatico. Per governare le emergenze sociali nei nostri paesi sono previsti strumenti temporanei, nel rispetto delle regole dell´Organizzazione del commercio mondiale, senza scatenare la spirale delle lotte doganali e delle contro – ritorsioni. Anche sulla rivalutazione della moneta cinese bisogna stare attenti a precipitare le decisioni: altre volte in quest´area del mondo l´instabilità monetaria ha avuto conseguenze gravi».
Lei non condivide la demonizzazione del «pericolo cinese» che è all´ordine del giorno in Italia.
«Qui a Pechino osservo che di fronte alla sfida cinese c´è una reazione asimmetrica. Noi stiamo perdendo colpi nelle quote di mercato, altri no. La Germania, pur con i suoi problemi, regge bene nelle esportazioni in questo immenso mercato. Il problema non è la Cina, il problema è l´Italia. Da anni il nostro paese si è rassegnato a bruciare le risorse accumulate nel passato. Siamo ultimi d´Europa, siamo scivolati nella recessione, il lavoro langue, perché sono franate le nostre esportazioni nel mondo».
Come rianimare un tessuto produttivo che perde colpi in modo così drammatico? Dall´Unione europea all´Ocse si moltiplicano richiami sui conti pubblici: dove sono le risorse per una politica di rilancio?
«Il governo non può continuare con una politica economica fatta di annunci poi ritirati, di terapie "dolci", promesse per illudere la gente. Si annuncia la riduzione dell´Irap, prima in tre anni, poi in un anno; si promettono cose che non accadono. E soprattutto non si dice mai dove si prendono i soldi per mantenere le promesse, che diventano perciò impossibili. Quando arrivano severi giudizi sui conti pubblici non si può invocare una presunta congiura degli uffici statistici mondiali contro l´Italia. Il paese ha bisogno di messaggi chiari, di azioni che tocchino i comportamenti dei ceti più elevati, della classe dirigente. Più studio i problemi italiani, più lavoro nella "fabbrica del programma", più mi convinco della necessità assoluta di rimedi radicali».
I rimedi radicali sono quelli che generalmente un governo italiano non riesce a varare per mancanza di consenso, per i diritti di veto delle minoranze, per l´instabilità delle coalizioni.
«Perciò non basta vincere le elezioni. Dopo, occorre una squadra di governo che non si esaurisca nel gestire i propri equilibri interni. Il sistema politico non può pensare di mantenere gli equilibri esistenti. Io non sono disponibile a gestire un altro periodo di gioco in difesa. I prossimi cinque anni non devono assomigliare neanche lontanamente agli ultimi quattro. Gli uomini della politica saranno chiamati per primi a dare un esempio di una svolta netta nei comportamenti e nella capacità di affrontare sacrifici. E avremo bisogno di attingere alle generazioni più giovani. Paradossalmente, nell´antica Cina dove gli anziani sono tanto rispettati, vedo un ruolo delle nuove generazioni assai più esteso che in Italia».