Chi è prescelto e messo ai primi posti della
lista non ottiene come un feudo come accadeva nei secoli bui, ma da oggi ha già
il rango e lo stipendio di onorevole in tasca.é inutile che il «candidato», per
così dire, chieda voti perché gli arriveranno comunque.
Così com´è del tutto
superfluo che i suoi «elettori», sempre tra virgolette, ne conoscano l´aspetto
fisico, la vita famigliare, il curriculum professionale, le idee politiche, le
vittorie, le sconfitte, le virtù o le magagne, perché tanto lui andrà in ogni
caso a Montecitorio o a Palazzo Madama. (Tiè!).
Come ventilato in mirabile
sincronia nei mesi scorsi da parte dei maggiori partiti (Forza Italia e Ds), c´è
qualche buona ragione per sospettare che in cambio del seggio, chi prima chi poi
debba pagare; o abbia già pagato. E dal punto di vista dei partiti, che ormai
per legge si sono assicurati il beneficio di conferire cariche, una qualche
riconoscenza si capisce pure.
Molto meno è destinato a capire l´elettorato che
il 9 aprile si ritroverà davanti scelte da compiere a scatola chiusa: prendere o
lasciare. Come appare evidente, non si tratta solo di una discutibile forzatura
sul piano della democrazia, ma anche di una innovazione che rompe con il passato
e in qualche modo sovverte e forse addirittura capovolge i meccanismi di
selezione della classe dirigente.
Nella lunga stagione del proporzionalismo
(1946-1991) sull´altare del voto di preferenza si sono combattute lotte
pazzesche e bruciati tesori di astuzia matematica elettorale.
Candidati,
correnti, calcoli fattoriali, «santini», fac-simili. A ogni concorrente
corrispondeva un numero di lista, ed era sulla base delle combinazioni che si
vincevano o si perdevano le elezioni.
Così, nell´Irpinia felix dei primi anni
settanta i demitiani escogitarono una fantastica combine: era il 1972 e
scrivendo appunto «1972» sulla scheda si spediva automaticamente alla Camera De
Mita, che era il numero 1, e poi il candidato numero 9, amico di De Mita, quindi
il numero 7, pare di ricordare fosse il demitiano Peppino Gargani, e infine il
numero 2, Gerardo Bianco, allora pure demitiano.
Erano guerre in famiglia, le
peggiori. Si spostavano blocchi di voti clientelari all´ultimo momento, come
pure si scambiavano pacchetti con candidati di altri partiti al Senato.
Ma si
sono anche fatti circolare fac-simili sbagliati per disorientare gli elettori;
ed è anche successo che negli ultimi giorni della campagna si annunciasse la
finta morte di qualche concorrente.
A Napoli, nel 1963, l´onorevole Crescenzio
Mazza venne commemorato sui muri cittadini con alatissime parole; mentre alle
ultime comunali di Catania il macabro scherzetto ha avuto come vittima Raffaele
Lombardo. Andreotti, Moro, Gava, Colombo, Lattanzio, Rumor e poi Bisaglia: tutti
i grandi poteri sono nati a colpi di preferenze. «Divisi si vince» strizzava
l´occhio Franco Evangelisti.
Questo autentico bellum omnium contra omnes, questa
guerra di tutti contro tutti, era il classico male che la Dc riusciva a
convertire in bene. «A´ Vittò, stavorta 160 mila preferenze!» gridavano alla
fine degli anni ottanta i fans di Vittorio Sbardella.
E lui, imperioso: «Nun
mettemo limiti!». Perché poi alla fine i conti tornavano, soprattutto per lo
scudo crociato. Ma anche gli altri partiti – dai rissosissimi socialisti ai
socialdemocratici con le loro nicchie corporative, dai missini menacciuti ai
signori del Pli e del Pri – si regolavano più o meno allo stesso modo.
E
insomma, a distanza di anni si può dire: era pur sempre un criterio. Solo i
comunisti restarono per decenni impermeabili a questo sistema. Il giorno del
voto i militanti andavano in sezione e lì, disciplinatamente, ritiravano un
bigliettino con i «bloccaggi».
Non erano ammesse discussioni e in cabina nessuno
faceva brutti tiri. Secondo una leggenda terzinternazionalista – se non vera,
bene inventata – appena eletti, i parlamentari del Pci erano o comunque si
sentivano obbligati di firmare una lettera di dimissioni, riservando al Partito
il diritto di apporvi la data in qualsiasi momento. Ecco. Chi avrebbe mai potuto
immaginare che questo dei vecchi comunisti sarebbe diventato il modello più
vicino all´attuale.
Ma la differenza vertiginosa con il presente sta nelle
condizioni della vita pubblica italiana e dei partiti in modo particolare. Ora,
passi pure il grottesco e simmetrico trionfalismo di alcuni esponenti locali dei
ds e di Forza Italia che, al termine di micidiali lotte per le investiture, sono
riusciti a chiudere i loro elenchi di beneficiati: «Si tratta di una lista di
candidati di alto profilo politico, culturale e morale» ha detto il segretario
calabrese diessino.
«Le liste di Forza Italia – sempre ieri gli ha fatto eco il
coordinatore berlusconiano della Basilicata Guido Viceconte – contengono le
risorse migliori e più rappresentative della classe dirigente regionale, sia a
livello di istituzioni che di partito».
Ma nel giorno della presentazione di
queste benedette liste colpisce soprattutto il silenzio sul grave colpo
assestato al concetto stesso di rappresentanza, oltretutto da parte di partiti
che appaiono tanto più vecchi, vuoti, oligarchici, frammentati e privi di canali
di comunicazione con la società quanto meno riescono ormai a nascondere la loro
crescente e quasi disperata voracità.
A occhio, la qualità dei futuri
parlamentari non è mai apparsa così scadente. La carne, infatti, anche quella
degli apparati, è debole: troppo comodo scavalcare gli elettori per «sistemare»
a proprio agio amici, mogli, parenti, cortigiani e capitani di ventura, non di
rado impresentabili.
Nessun grande partito e nessun leader hanno saputo
resistere alla tentazione regressiva dell´investitura. Nessuno ha fatto
un´apertura o un sacrificio intelligente.
Di solito sono cose che si pagano, ma
dopo. Nel frattempo resta difficile specchiarsi nella regressione.