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21 Febbraio 2006

Non aboliamo i patti ma le “scatole cinesi”

Autore: Giuseppe Turati
Fonte: la Repubblica

La proposta di Guido Rossi (abolire tutti i patti di sindacato) è
affascinante, suggestiva, estrema, ma anche insufficiente e sbagliata in
questa fase del nostro capitalismo.

Il perché sia affascinante e suggestiva
dovrebbe essere chiaro a tutti.

È bello immaginare un capitalismo quasi da
manuale.

In cui tutti i soggetti vanno in assemblea e contano esattamente
per le azioni che hanno comprato e pagato.

Tanto quello che ha dieci azioni
come quello che ne ha dieci milioni.

Senza patti (di sindacato) che di fatto
espropriano l’assemblea delle sue prerogative (decidere sul futuro
dell’azienda) perché le cose importanti sono state già decise in altra sede
dai “pattisti”.

Ripeto: è bello immaginare un capitalismo del genere.

Soprattutto se lo si confronta poi con la povera realtà del nostro
capitalismo, quello con cui abbiamo a che fare ogni giorno.

Un capitalismo
nel quale le cose che contano, le realtà aziendali di un certo peso, stanno
tutte in piedi grazie proprio a patti di sindacato, talvolta talmente
complicati che servono poi avvocati di grandissima levatura per capirci
qualcosa.

Ecco, l’idea di gridare forte “Da domani, liberi tutti” e di
spazzare via in un sol colpo tutto questo armamentario, è suggestiva.

E da
un punto di vista ideologico è certamente da condividere.

Il capitalismo che
ci piace è appunto quello immaginato da Guido Rossi, bello e splendente
nella sua purezza, e non quella miseria che abbiamo sotto gli occhi, dove
magari a forza di quote del 2 per cento si mette insieme alla fine un patto
di sindacato di un qualche peso.

Però sono valide anche molte obiezioni.

La
prima, sollevata da vari commentatori, è che gli azionisti rilevanti
troverebbero comunque un modo per unirsi e per imporre la loro volontà agli
altri.

Ad esempio mettendo le loro azioni dentro un’unica holding.

E così
via.

Ma l’obiezione più importante è che una riforma di questo genere
(abolizione dei patti di sindacato), se realizzata in tempi brevi, avrebbe
il solo risultato di rendere tutto il sistema instabile: dalle grandi
società alle grandi banche, fin giù fra le medie imprese.

Si andrebbe,
insomma, verso un terremoto di grandi proporzioni.

E non credo che, proprio
oggi, noi si sia in grado di affrontare una bufera del genere: ci siamo
appena liberati di Fazio e della sua Banca d’Italia napoleonica, e forse per
un po’ basta.

Inoltre, sappiamo benissimo che molti di questi gruppi
(aziende e banche) sono in una fase di delicati e complicati “lavori in
corso” (Fiat, Pirelli, e tutte le banche).

E’ opportuno aggiungere ai loro
problemi anche quello di una forte instabilità degli assetti azionari’ Ma ci
sono altre cose da dire.

Se vogliamo un capitalismo bello e splendente,
allora ci sarebbero altri punti da aggredire.

Il primo, grande come una
casa, è quello delle Fondazioni bancarie, veri mostri, animali preistorici
che si aggirano nel nostro sistema finanziario e che sono certamente al di
fuori di qualsiasi visione del capitalismo (anche la più retrograda).

Non
rispondono a nessuno di quello che fanno, sono dirette da gente, magari per
bene, ma che nessuno di noi ricorda perché sono finite lì.

E non si
sciolgono automaticamente in caso di Opa.

Sono, in sostanza, dei patti di
sindacato permanenti e per di più fatti con i soldi degli altri e non di
quelli che decidono.

Poi, se vogliamo continuare nell’elenco delle cose
brutte del nostro povero capitalismo contemporaneo, non possiamo non citare
le scatole cinesi.

Quelle strutture per cui con poche azioni controllo la
società A, che poi controlla la B (un po’ più grande), che controlla la C, e
così via.

Fino a arrivare agli assurdi presenti nel nostro sistema di gruppi
che con investimenti molto modesti controllano attività 100, 200 e anche 300
volte più grandi.

Infine, le società per accomandita (per fortuna sempre
meno di moda, ma ancora presenti).

Altri mostri che di democratico e di
moderno non hanno niente.

Dove gli amministratori fanno quello che vogliono
e gli azionisti stanno a ascoltare, magari senza nemmeno il diritto di
sostituire i deceduti perché gli amministratori provvedono in modo autonomo,
cooptando qualcuno di gradito.

Il nostro capitalismo, insomma, non è affatto
bello e splendente, è brutto e molto provinciale.

Su questo siamo tutti
d’accordo.

Fra l’altro (a sua parziale discolpa) va anche detto che manca in
attore fondamentale: e cioè i fondi pensione.

Ma il fatto che non sia un
granché non comporta che per curarlo gli si debbano dare delle mazzate in
testa, provocando pericolose instabilità ovunque.

Mi rendo conto che di
pazienza ne abbiamo già avuta tanta (e in questo senso condivido un po’
impazienza di Rossi).

Se ne avessimo avuta meno con Fazio e la sua
impossibile Banca d’Italia, probabilmente oggi avremmo un mondo del credito
migliore.

Ma, nonostante questo, credo che occorra un ulteriore sforzo di
ragionevolezza.
Il nostro capitalismo, lo abbiamo appena visto, è infestato
da mostri di ogni genere (compresi quelli contro cui si è scagliato Guido
Rossi, ma non solo quelli).

E sono mostri di cui dobbiamo liberarci.

Magari
non in sella a un cavallo e agitando uno spadone, ma con pazienti e attente
riforme che lascino una via d’uscita a chi finora ha governato le imprese
proprio grazie all’esistenza di quei mostri.

Insomma, un passo alla volta.

Per vent’anni il patto di sindacato di Mediobanca è rimasto chiuso nella
cassaforte di Cuccia.

E credo che in tutto quel periodo non più di dieci
persone in Italia abbiano saputo che cosa c’era scritto.

Oggi, invece, è
pubblico, a disposizione di chiunque.

E’ talmente complicato e barocco che a
leggerlo viene anche un po’ da ridere.

Ma almeno sappiamo (tutti) di che
cosa si tratta e, volendo, sappiamo che cosa si potrebbe riformare.