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26 Ottobre 2005

Noi bersagli nella fortezza triste

Autore: Bernardo Valli
Fonte: la Repubblica


Capita che un albergo susciti passioni, proprio come un essere umano. Lo detesti, lo ami, ti irrita, ti è simpatico, è fonte di indecifrabili allergie oppure ti fa sentire a casa, anche quando ti trovi in un paese inospitale. Può essere una cuccia rassicurante o un luogo sospetto, infido, insomma una trappola. Soprattutto se l´albergo si trova in Iraq, dove qualsiasi occidentale per il semplice fatto di essere tale è un potenziale bersaglio o un ostaggio da scambiare con qualche milione di dollari o da sgozzare come un agnello. L´hotel Palestine non è un albergo ideale. Non lo è mai stato.

Giovedì scorso, lasciandolo di primo mattino, all´alba, quando gli abitanti di Bagdad (e quindi anche i kamikaze) dormivano ancora dopo la lunga cena notturna del ramadan, ho provato un grande senso di sollievo. Mentre l´automobile si inoltrava a tutta velocità su un rettilineo viale deserto, ho gettato un ultimo sguardo ai diciotto piani grigi, svettanti nella luce pallida, nebbiosa per la sabbia del deserto, senza il minimo rimpianto. Neppure un malinconico pensiero al letto appena abbandonato dopo un sonno troppo breve e abbastanza agitato dalla voglia di partire.

Nessuno mi aveva annunciato un attentato. Ma sentivo che bisognava lasciare l´hotel Palestine al più presto. Era una fortezza scarsamente protetta nel cuore della città in preda alla guerra civile e dunque un obiettivo ambito da guerriglieri e terroristi. Mi meravigliava che non fosse più da tempo uno dei bersagli preferiti da mortai e lanciarazzi. Oppure la meta di qualche kamikaze ansioso di compiere un´impresa spettacolare. Tradizionale albergo dei giornalisti durante la guerra del 2003, quando ospitava le televisioni di tutto il mondo, era un trofeo da esibire anche nell´aldilà. Quello riservato agli eroi.

Chi l´avesse demolito o ferito, schiacciando sotto le macerie i suoi ospiti, avrebbe conquistato la gloria. Meglio lasciare il Palestine al più presto. Dopo aver seguito il referendum del 15 ottobre sulla Costituzione, e il processo a Saddam Hussein del 19, non si doveva perdere tempo.

Non c´era stato nessun segno premonitore. Adesso qualche amico, che con me ha lasciato il Palestine la mattina di giovedì, interpreta come un avvertimento la frase sibillina di un autista, di un cameriere, di un interprete iracheno o di uno dei tanti sfaccendati seduti nella hall dell´albergo. In realtà con Alberto Negri, del Sole 24 Ore, con Giuseppe Zaccaria de La Stampa e con Daniele Mastrogiacomo di Repubblica, decidemmo di andarcene «perché si avvertiva nell´aria qualcosa che non andava». Niente di più vago.

Una semplice sensazione, basata però su qualcosa di razionale. A Bagdad ci sono regole non scritte che vanno rispettate. Dopo dieci giorni al massimo devi cambiare il posto dove abiti, altrimenti le spie presenti in tutti gli alberghi ti segnalano e diventi un ostaggio o un cadavere. Se non hai una scorta armata e non sei in un luogo superprotetto (come è il caso dei giornalisti americani e inglesi) è di rigore far perdere le proprie tracce.

Al Palestine non avevamo né guardaspalle con il mitra (detesto la semplice idea di sentire il loro fiato sul collo) né eravamo abbastanza immunizzati da attentati terroristici. L´albergo era scarsamente presidiato da alcuni soldati americani. I controlli erano affidati soprattutto a poliziotti e militari iracheni. Al quinto piano, la redazione dell´Associated Press, la maggiore agenzia stampa degli Stati Uniti, e al terzo la Fox, network Tv anch´esso americano, avevano al loro servizio piccoli eserciti privati.

Quando le porte dell´ascensore si spalancavano a quei piani ti trovavi davanti a un paio di mitra puntati. Io abitavo al nono semideserto. Gli amici Daniele Mastrogiacomo e Alberto Negri erano all´ottavo, insieme a un paio di giornalisti russi. Giuseppe Zaccaria era solitario al dodicesimo. Eravamo dispersi e vulnerabili. Avevo suggerito di raggrupparci tutti allo stesso piano e di incaricare Fuad, il fedele palestinese che mi accompagna in tutti i viaggi iracheni, di organizzare un pacifico sistema di protezione.

La presidenza del Consiglio italiana (preoccupata per la nostra presenza a Bagdad, che aveva più volte sconsigliato) aveva segnalato ai nostri rispettivi giornali possibili attacchi nei nostri confronti. L´avvertimento si basava su quanto avevano riferito i servizi di informazioni della nostra ambasciata. Ma se noi giornalisti dovessimo tener conto degli inviti alla prudenza non ci muoveremmo mai di casa. Lo scetticismo ci ha comunque convinto a restare divisi, senza nessuna particolare protezione, ai nostri piani. Del resto i colleghi dell´AP e della Fox, accampati da mesi al Palestine, costituivano un bottino umano assai più cospicuo di noi, anche se meno vulnerabile.

Secondo la ricostruzione delle autorità irachene i terroristi volevano catturare i clienti dell´albergo. Le due automobili imbottite di esplosivo, che hanno aperto un varco nel muro in cemento armato e poi sono saltate per aria davanti all´ingresso del Palestine, dovevano aprire la strada ad un commando, il cui compito era appunto di sequestrare un certo numero di ostaggi. L´azione dei kamikaze non era insomma fine a se stessa. Tutto è possibile, ma nulla è certo a Bagdad. La violenza è spesso, a mio avviso, una roulette russa.

Perché non ho mai amato l´hotel Palestine? E´ triste. Intenebrato. Le camere affacciate sul Tigri e sulla città, che si stende piatta fino perdersi nel deserto, ti permettono di respirare e di osservare le colonne di fumo sollevate dai razzi e dai colpi di mortaio. Ma ti senti in gabbia. Più ancora un bersaglio. Neppure gli americani resistettero alla tentazione.

Nell´aprile 2003, al momento della conquista di Bagdad, un carro armato arrivato su un ponte a cavallo del Tigri sparò sul Palestine uccidendo due giornalisti, uno spagnolo e un ucraino, che da un balcone riprendevano la battaglia con le telecamere. Quella tarda mattina mi trovavo al pianterreno, e vidi passare i colleghi sanguinanti. A Bagdad non ci si deve fidare di nessuno. Neppure se abiti nell´albergo più celebre della città ti senti al sicuro. Pochi osano scendere nel ristorante al pianterreno.

Gli americani dell´AP e della Fox abbandonano di rado i loro piani. A cena ti ritrovi spesso solo davanti a manciata di camerieri assonnati che ti guardano come se tu fossi un uccello raro smarritosi, capitato lì per caso e hai l´impressione che ti dicano: «Cosa sei venuto a fare qui?», per questo finito il referendum sulla Costituzione e concluso il processo a Saddam, compiuto cioè il nostro lavoro di reporter, Daniele, Alberto, Giuseppe ed io ce ne siamo andati questa volta in tempo. Stendhal dice che arrivando in una città bisogna conoscere al più presto le dieci persone più ricche, le dieci donne più belle e le dieci persone che potrebbero ucciderti. A Bagdad bisogna conoscere soprattutto quest´ultime.