ROMA – Presidente Giuliano Amato, la vecchia Europa non c´è più. I destini del continente sembrano ormai nelle mani salde di Tony Blair. E´ un bene o un male?
«Subito dopo i due referendum in Francia e in Olanda avevo fatto questa previsione-auspicio: che nei mesi successivi non si parlasse di istituzioni, e che l´Unione europea facesse la cosa più utile, evitando di cadere nell´eurosclerosi e dimostrandosi capace di adottare, facendole capire, le decisioni politiche che ha davanti. Mi pareva la risposta più adeguata a dei “no”, che non erano tanto contro la Costituzione, quanto contro l´Europa che non cresce, che appare poco democratica, che si è allargata in modi che suscitano una ansietà direttamente proporzionale alla scarsa crescita e alla scarsa disponibilità di posti di lavoro».
Quindi la sua analisi coincide perfettamente con quella di Blair?
«Da questo punto di vista sì. Oggi, per fare quello che serve, c´è bisogno di leadership politica. Mentre non sarebbe da leaders, e sarebbe falsamente democratico, reagire ai referendum accodandosi timorosi alle preoccupazioni dei cittadini europei, all´insegna di un´Europa più chiusa, più protezionista, e sempre più venata di xenofobia. I leaders non possono certo ignorare questi sentimenti dei loro cittadini, ma devono interagire con loro. Democrazia è anche spiegare, è farsi capire, e non arrestarsi di fronte alle difficoltà per paura di perdere voti».
A questo punto il semestre di presidenza britannico, sulle basi che lei stesso ha indicato, ci riserverà grandi sorprese?
«E´ presto per dirlo. Certo, come si evince dal suo discorso di giovedì, Blair cerca di guardare avanti. Rappresenta un tentativo di recupero rispetto al disastro cui lui stesso aveva concorso nello sciagurato weekend della scorsa settimana, quando persino i giornali inglesi lo avevano accusato: hai perso un´occasione per esercitare la leadership, in cambio di quattro sterline. Blair ha fatto dei “no” un´analisi molto corretta, sottolineando giustamente che c´è una missione europea da salvare, allargamento compreso, e che bisogna discutere di più con la gente. Blair ha fatto una critica opportuna alle politiche sociali in atto in molti paesi continentali, con argomenti non contestabili. E non a caso ha citato come testi da realizzare poi concretamente il rapporto Kok su sviluppo e occupazione in Europa, sostenuto tra l´altro da tutta la famiglia socialista europea, il rapporto Sapir sul nuovo bilancio da dare all´Europa ai fini della crescita, che fu voluto e sostenuto da Romano Prodi, e naturalmente l´agenda di Lisbona, testo fin troppo sacro per la stessa famiglia socialista europea».
Abbiamo fatto l´apologia di Blair. Ma il bicchiere dell´Europa all´inglese, comunque, non è affatto pieno.
«Non c´è dubbio. Dato a Blair quel che è di Blair, non si può non notare che quando il leader inglese definisce il modo in cui vede l´attuazione delle missioni da lui stesso indicate, l´Unione europea implicita nelle sue parole è l´Unione europea inglese, quella che funziona sempre e soltanto attraverso l´unanime concordia degli Stati nell´adottare politiche specifiche coerenti con quelle missioni. Blair del resto dice di credere nell´Europa come progetto politico, ma poi chiarisce che per lui lo scopo dell´Europa politica è “promuovere assetti democratici ed efficienti nello sviluppare nella sfera economica e in quella sociale le politiche nelle quali noi vogliamo e sentiamo il bisogno di cooperare nel nostro mutuo interesse”. E´ l´Europa della cooperazione fra gli Stati. E mi colpisce che prima della Convenzione lo stesso premier inglese aveva detto, in un discorso applauditissimo a Varsavia, che gli inglesi non dovevano pensare soltanto all´Europa della cooperazione, ma anche al rafforzamento dell´integrazione, e quindi delle istituzioni che la incarnano, la Commissione e il Parlamento. Ora, nel suo nuovo discorso, non c´è più traccia di questo».
E questo cosa significa?
«Prima della Convenzione, aveva evidentemente ritenuto che per inserirsi nel futuro discorso europeo fosse necessario spingersi più avanti. Ora, nel clima creato dal no alla Costituzione quel bisogno non lo avverte più e ripropone l´Europa britannica. Come ha scritto un nostro acuto analista, ogni volta che l´Europa ha una crisi, la Gran Bretagna ne approfitta per imporre il suo modello. Ora a me sembra che siamo esattamente in questa fase. Ma un´Europa a 25, e poi a 27, come riuscirà mai a realizzare le missioni di cui parla Blair, se le affiderà soltanto alla mutua e unanime cooperazione? Ha dunque ragione Blair quando dice che l´Europa deve muoversi sul piano politico, ma il suo rischia di essere soltanto un enunciato retorico se ignora la necessità che c´è di rafforzare le stesse istituzioni, affinché la politica non finisca impantanata nei veti. E questo è il vero limite dell´impostazione blairiana. La sveglia alla politica europea è essenziale, ma se non serve anche a riprendere, se non oggi domani, il potenziamento dell´architettura istituzionale dell´Unione finisce in un flop».
Se questo è il limite dell´impostazione del premier britannico, che dire dei tragici limiti dell´asse franco-tedesco?
«L´asse franco-tedesco sta scomparendo. Per il futuro ci aspettano tempi incerti. Non sapremo se tra due anni ci sarà una Francia di Sarkozy o una Francia in mano ai socialisti. E non sapremo se questa Francia avrà la forza e la possibilità di ristabilire rapporti privilegiati con una Germania, magari guidata da Angela Merkel».
Lei esclude che in futuro l´Unione possa procedere in base alle cosiddette “geometrie variabili”?
«Nell´Unione europea dell´allargamento ci potranno essere anche geometrie variabili. Ma attenzione, e mi rivolgo soprattutto a quelli che oggi invocano la ripresa d´iniziativa del nocciolo duro dei paesi fondatori. A parte la difficoltà a vedere nella Francia del “no” uno dei promotori di una tale iniziativa, a che cosa si mira? Ad una Europa politica più ristretta, limitata ai fondatori e poco più, lasciando i paesi nuovi dell´Est e tutti gli altri al ruolo aggregato di area economica? Un assetto di questo tipo non può reggere e non serve. Mi si deve spiegare perché mai i polacchi o gli ungheresi devono essere solo partecipi del mercato comune e non invece del progetto politico complessivo. Andiamo verso un mondo in cui ci saranno Stati Uniti, Cina, India, sempre più forti e sempre più potenti sullo scenario globale. Come è possibile che noi non riusciamo ad avere il coraggio di dare un senso politico allo stare insieme di quattrocento milioni di cittadini che sono tutti allo stesso modo europei, e invece preferiamo ritirarci in una piccola Europa da anni ’50, che nel nuovo millennio finirebbe per non contare più di quanto potrebbe contare ciascuno dei nostri Stati per proprio conto?».
Quindi, secondo lei, anche l´Europa a due velocità è destinata a fallire?
«In linea di principio non ho obiezioni sull´Europa a due velocità, ma solo se il plotone di testa punta a far accelerare anche il gruppo e a portarselo dietro. Inoltre voglio prima capire chi dovrebbe stare con chi nel plotone di testa. Ma oggi non è facile capirlo e se non lo si fa la discussione rischia di essere sterile e insensata».
In Italia, comunque, è già partito il solito dibattito, un po´ manicheo tra modello blairista e modello continental-chiracchiano. Lei cosa ne pensa?
«Se non ci fosse da piangere ci sarebbe da ridere. Lo dico non per snobismo intellettuale, ma perché non ha senso questo continuo discutere di modelli. E´ verissimo che davanti a una fase di profondo cambiamento colui che si occupa solo di Irap e Irpef viene giustamente criticato perché gli si dice: tu vedi l´albero ma non riesci mai a vedere la foresta. Il fatto si è che dividendosi tra fautori di modelli e discutendo dei medesimi si finisce per non vedere ne´ l´albero né la foresta, ma si sproloquia inutilmente di tipologie forestali. E questa è una palese distorsione della visione d´insieme che invece sarebbe necessaria».
E qual è la visione giusta, dal punto di vista italiano?
«A mio parere, la foresta che noi dobbiamo vedere è una divisione internazionale del lavoro nella quale l´Italia di oggi appare il paese europeo più esposto alla concorrenza asiatica, soprattutto nei settori maturi che un tempo hanno fatto la sua forza, dalle scarpe, ai tessili e ai mobili, con in più una accentuata debolezza nel suo capitale sociale, nelle sue reti e nei suoi servizi. Il nostro tema, allora, è come inserire l´albero Italia nella foresta dell´economia globale, avvalendoci del contesto europeo. Discutiamo dei modi per farlo, non di modelli. Ci sono tante cose di cui discutere: a quali lavori prepararci, come rafforzare la nostra logistica, come rafforzare le imprese, come ridurre il costo dell´energia. Ed anche l´Europa, al di là delle enunciazioni di buona volontà politica, deve uscire dalle sue sfasature attuali. Giacomo Vaciago ha osservato giorni addietro: abbiamo un´Europa in cui la stabilità è affidata all´Unione e la crescita è invece affidata agli Stati membri. Così non funziona e per questo Lisbona è fallita. Qui sbattiamo il naso, noi e anche Blair».
Eppure c´è già chi avverte la sinistra: attenti a non lasciare Blair nelle mani della destra. Anche lei sente questa preoccupazione?
«No, non è questo il nostro problema. Sento caso mai il problema di una leadership che ci guidi e che raggiunga risultati, in politica e in economia. Il che nell´Unione europea non può darlo né un solo leader, né una sola famiglia politica, si tratti della famiglia socialista o di quella popolare. La classe dirigente, tutta, ma anche quella italiana, dovrà muoversi in modo pragmatico e non ideologico. Impostare il ragionamento solo in termini di modelli, o di raffronto con Tizio o con Caio, è un metodo manicheo del tutto ridicolo. Basta con il manicheismo, che in altri campi ci porta a dire che se sono laico sono relativista, se sono relativista sono ateo. Queste sono solo sciocchezze da nullafacenti, che ormai si trovano in una tale condizione di declino da vivere in castelli ideologici, che li tengano al riparo da una realtà con cui non vogliono più combattere. E´ esattamente quello che noi dobbiamo evitare».