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12 Aprile 2007

Moro, quei giorni da non dimenticare

Autore: Arrigo Levi
Fonte: La Stampa

«Sono stato incerto se intervenire nel dibattito sui modi
e i motivi della «trattativa indispensabile» col gruppo di talebani
assassini che il governo afghano, sollecitato da quello italiano, ha
condotto per ottenere la liberazione del giornalista di Repubblica. Il
lucido articolo di Andrea Romano, con i cui giudizi concordo interamente, mi
libera dalla colpa del silenzio su questo evento. Ma mi ha colpito e stupito
il confronto, da varie parti ripetuto, fra questo episodio e il caso
Moro.

Il governo, i partiti, tutta la stampa, giudicarono impossibile
trattare con le Br per liberare Moro. Qualcuno si è domandato «perché allora
ci comportammo così». E anche alcuni, che allora non ebbero dubbi sulla
fermezza dello Stato, si sono chiesti, certo in buona fede, se non avessimo
sbagliato. La ferita lasciata dall’’assassinio di Moro, in tutti noi che ne
fummo testimoni coinvolti, non è ancora rimarginata.

E non consente il
silenzio. Capisco che a distanza di quasi trent’’anni, specie dai più
giovani, si siano dimenticate tante cose. Ad esempio, il fatto che per
impadronirsi dell’’ostaggio Moro le Br avevano massacrato i cinque uomini
della scorta (in questi giorni, credo lo abbia ricordato soltanto Mario
Cervi): o che durante i cinquantacinque giorni della detenzione di Moro
furono compiuti altri venti attentati, e furono rivendicati altri due
assassinii, fra cui quello di un agente di custodia di San Vittore. Si
chiamava Francesco Di Cataldo. Chi più lo ricorda? Le forze dell’’ordine
avevano già versato molto sangue. Come si sarebbe potuto, liberando dei
terroristi assassini, mettere deliberatamente a rischio altre vite di
poliziotti o carabinieri?

Si è dimenticato quali fossero gli obiettivi
strategici del rapimento di Moro, come li definivano le stesse Br nei loro
documenti: «Costruire il partito comunista combattente… disarticolare la
macchina dello Stato e nello stesso tempo proiettarsi nel movimento di
massa… Orientare, mobilitare ed organizzare il Movimento di Resistenza
Proletario Offensivo verso la guerra civile antimperialista… Nelle
fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, nelle carceri, organizzare il potere
proletario». I tanti omicidi garantivano che non si trattava soltanto di uno
«psicodramma» (noi diremmo una sceneggiata), come Raymond Aron volle
definire il ‘68 francese.

Si voleva colpire «il cuore dello Stato». E lo
Stato, «il nostro Stato», come lo definiva Carlo Casalegno, non poteva
piegarsi al ricatto dei nemici della libera Repubblica democratica che
avevamo costruito. Casalegno, che nella Resistenza era stato ispettore del
Comando piemontese delle formazioni di Giustizia e Libertà, aveva messo
consapevolmente a rischio la sua vita, non per una assurda idolatria dello
Stato: ma per difendere lo Stato democratico che aveva contribuito a
creare.

Altro ancora si è dimenticato. Un documento, a firma di Aldo Moro
prigioniero, che le Br fecero giungere al pubblico italiano, conteneva
parole (chissà come e da chi concepite), che merita ricordare: «Da che cosa
si può dedurre che lo Stato va in rovina se, una volta tanto, un innocente
sopravvive, e a compenso, altra persona va, invece che in prigione, in
esilio? Il discorso è tutto qui. In questa posizione, che condanna a morte
tutti i prigionieri delle Brigate Rosse (ed è prevedibile ce ne siano) è
arroccato il governo, è arroccata caparbiamente la Dc, sono arroccati in
genere i partiti». Involontariamente, questo passaggio del documento,
chiunque lo abbia pensato, spiegava perfettamente perché non si poteva
cedere.

Eravamo stati avvertiti. Al primo sequestro, se avesse avuto
successo, ne sarebbero ovviamente seguiti altri; e forse a Moro si fece
credere che già ce ne fossero stati altri, o che fossero imminenti.
Riconoscendo con una trattativa il «partito armato», cedendo al suo primo
ricatto, si sarebbero provocati, inevitabilmente, altri sequestri e altri
omicidi. Di uomini famosi e delle loro scorte. O anche di semplici
lavoratori. Si sarebbe mai potuto negare a chicchessia lo scambio concesso
per salvare Moro?
Chi, in quei giorni, incontrò Zaccagnini, o Cossiga, sa con
quanta tremenda sofferenza, dopo aver affrontato e superato quanti terribili
dubbi, si dovette rifiutare ogni scambio. Vicino a loro era Paolo VI, di
schietta stirpe popolare e antifascista, che aveva amato Aldo Moro, ma che,
nella sua preghiera agli «uomini delle Brigate Rosse», chiese la liberazione
di Moro «semplicemente, senza condizioni».

A distanza di anni, si può ben
dire che quella fermezza, quel sacrificio, non furono vani. L’0assassinio di
Moro e degli uomini della sua scorta, dopo i tanti omicidi di agenti
dell’ordine, di sindacalisti, di giornalisti, di magistrati, fu il punto
culminante di una svolta che segnò, prima di quanto noi allora potessimo
immaginare o sperare, l0’inizio della fine delle Br. Il terrore rosso, che il
Pci di Berlinguer, con le sue forti radici antifasciste, aveva respinto con
orrore, fece il vuoto attorno a sé. Alla notizia della morte di Moro si
riempirono le piazze. Si svuotarono le fabbriche. Si manifestò con forza
inaspettata la solidarietà commossa di tutto un popolo.

Quanti ricordi
tornano alla mente. Penso ai bravi, coraggiosi cronisti della Stampa (faccio
un solo nome per tutti, quello di Clemente Granata), che non avevano scorte,
le cui mogli ricevevano a casa telefonate minatorie, e che volevano firmare
i pezzi che dedicavano ogni giorno alle orrende imprese dei gruppi
terroristici.
Ripenso alla bomba fatta esplodere alla mezzanotte accanto al
muro esterno della sala di spedizione del nostro giornale, che solo per un
felice errore, frenata da un’’invisibile trave di cemento armato, non fece,
come gli assassini speravano, decine di morti fra i tipografi della
Stampa.

E ritrovo più forte che mai nella memoria l’immagine di Carlo, il
collega più caro, che aveva scritto nel 1977 parole profetiche sulle Br:
«Suscitano paura, ma il loro terrorismo è senza sbocco». Carlo aveva chiara
coscienza dei pericoli cui si esponeva con le sue lucide analisi, per voler
fare il proprio dovere. Per allontanare, come allora scrivemmo, quella peste
della violenza e del terrore dalla nostra cara patria.